Di Jacopo Simonetta.
Mentre fra Israele e Palestina si replica un tragico film
già visto chissà quante volte, sempre uguale, anche sulla stampa nostrana si
rilancia la polemica fra chi tifa per gli uni e chi per gli altri; su chi sia
più colpevole o su chi sia l’aggredito e chi l’aggressore, ecc. Tutti argomenti che penso sia del tutto
inutile discutere in quanto ognuno ha già le sue idee ben radicate
Piuttosto, credo che potrebbe essere interessante fare
qualche illazione su come andrà a finire.
Non questa puntata, ché probabilmente finirà come tutte le precedenti;
bensì su come finirà la serie. Voglio
dire: continuerà così in eterno? Oppure
ad un certo punto cambierà qualcosa e sarà trovato un accordo vero? Oppure uno dei due contendenti riuscirà ad
annientare l’altro? Ed in questo caso,
presumibilmente chi dei due?
Come sempre quando si cerca di sbirciare attraverso le
nebbie del futuro la probabilità di azzeccarci è minimale; queste righe
vogliono quindi essere solamente uno spunto per riflettere su alcuni aspetti
della questione normalmente trascurati.
Non un pronostico.
Gli elementi in gioco sono tantissimi, ma forse i principali
sono: forza militare, forza politica, forza economica. Allo stato attuale sappiamo quali sono, ma sarebbe
interessante capire come l’evoluzione in corso nel sistema globale modificherà
lo scenario in questione.
Per prima cosa diamo dunque un’occhiata all’attuale forza relativa
dei due contendenti.
Sul piano militare, Israele dispone di uno dei migliori
eserciti del mondo, mentre dall’altra parte si schierano alcune migliaia di
miliziani, perlopiù combattenti altamente motivati ed ottimamente addestrati,
ma niente di neppur lontanamente comparabile con le forze cui si oppongono. Teoricamente la guerra dovrebbe risolversi
nel giro di pochi giorni ed invece va avanti da decenni. Come è possibile?
Un primo tassello di questo puzzle è rappresentato dal tipo
di forze che si contrappongono. Nel
tempo, Israele si è dotata di una forza militare studiata e strutturata per
combattere e vincere una guerra convenzionale con i paesi confinanti. Ma si trova a combattere una guerra non
convenzionale in cui la componente politica è predominante su quella
militare. Semplicemente non possono utilizzare
che una parte minimale del loro potenziale bellico perché in un ambiente urbano
compatto come Gaza questo significherebbe migliaia e non diecine di morti al
giorno; quasi tutti civili. Se anche
volessero (e non è detto che lo vogliano), non possono farlo. I loro stessi alleati glielo impedirebbero.
Dall’altra parte, Hamas (come nel recente passato e forse in
futuro Hezbollah) non ha alcun bisogno di centrare qualche obbiettivo
minimamente rilevante. Solo il fatto di
continuare a sparare dei razzi contro un avversario smisuratamente più potente
gli assicura la vittoria politica e morale.
Anche se i loro razzi fanno dei buchi per terra o poco più.
Altra asimmetria importante è il rapporto con i civili,
propri ed altrui. Da parte israeliana
vige la necessità di garantire la completa sicurezza dei propri cittadini. Non era così ai tempi in cui i Kibbuzin
andavano nei campi con il fucile ad armacollo, ma oggi l’uccisione di un solo
israeliano è giudicata un fatto inammissibile e vincola il governo a reazioni anche spropositate. D’altronde, se l’uccisione di civili
palestinesi è entro certi limiti tollerata dalla comunità internazionale, non
c’è dubbio che ogni singolo caduto da parte palestinese favorisce Hamas a tutti
i livelli, sia interni che internazionali.
Paradossalmente, mentre per il governo israeliano ogni singolo civile
ucciso (proprio od altrui) è un colpo politico, per i suoi avversari più gente
muore (propri a ed altrui) e maggiore è il vantaggio politico e di immagine che
ne ricavano. Molti commentatori
sostengono anzi che le milizie palestinesi usino scientemente i propri civili
come ostaggi. Di fatto funziona così ed
è una cosa vista anche in altri contesti, ma non darei per certo che sia un
fatto voluto. Del resto, durante gli
scontri fra Hamas e Al Fatah (2006-2007) la percentuale di civili uccisi fu
ugualmente molto alta, malgrado non vi fosse alcun interesse politico in tali
morti.
Comunque sia, sul piano militare Israele non ha la minima possibilità di soperchiare
una volta per sempre il nemico; mentre le milizie islamiste non possono neppure
ingaggiare seriamente il nemico. Dunque
una situazione di sostanziale stallo, malgrado l’enorme disparità di forze in
campo.
Sul piano politico, ho la netta impressione che siano
lontani i giorni in cui i governi Rabin e Peres davano l’impressione di cercare
davvero un ragionevole compromesso. La
tecnica arafattiana di trattare fino alla soglia di un accordo per poi mandare
tutto a monte e ricominciare daccapo è stata efficace nel portare a Gerusalemme
governi più o meno legati all’estrema destra religiosa ebraica, cosa che a sua
volta ha molto favorito la popolarità delle fazioni estremiste in campo
avverso. Non so se sia stato voluto, ma
di fatto l’effetto è stato quello di consegnare entrambi i popoli a delle
classi dirigenti che hanno tutto l’interesse a mantenere uno stato di
belligeranza cronico che assicura ad entrambi il mantenimento del rispettivo
potere. In sintesi, il migliore alleato
politico di Netanyahu è Haniyeh e viceversa. Una situazione comune anche in altri
contesti.
Sul piano internazionale, entrambi i contendenti godono di
protezioni potenti, ma molto più intricate di quanto non lasci credere la
stampa corrente in quanto molti soggetti (governi e non) sostengono contemporaneamente
più d’una tra le fazioni in causa e su entrambi i fronti. Ma soprattutto le potenze che sostengono i
contendenti ne vincolano anche, in una certa misura, l’operato. Dunque, anche su questo piano, nessuna delle
due parti ha la minima possibilità di rovesciare l’altra. Non può Hamas perché non ne ha la forza; non
può Israele perché i suoi alleati più vitali non glielo permetterebbero.
Esiste però un altro piano rilevante: quello economico. Anche in questo caso a prima vista non c’è
confronto possibile fra uno stato dotato di un’economia pienamente
industrializzata ed un’organizzazione politico-militare che tira avanti con le
rimesse degli emigrati, le tasse che riesce ad esigere da una popolazione perlopiù
poverissima ed aiuti da paesi terzi che perseguono comunque scopi diversi da
quelli che si pongono i principali contendenti in campo. Eppure, proprio su questo piano è Hamas ad
avere in mano le carte di migliori. Anche se oggi dei missili di media gittata hanno sostituito (o integrati) i
razzi Qassam, ordigni rudimentali
estremamente imprecisi, con cui Hamas ha bersagliato il territorio nemico per anni, il fuoco proveniente da Gaza è ancora molto più economico ed efficace nel provocare una
reazione che si manifesta invece con sistemi d’arma spaventosamente costosi sia
d’acquisto, che di uso. Un solo missile
del sistema “iron dome” costa probabilmente molto di più di tutti i razzi
sparati da Hamas nella sua storia, per non parlare dell’oltre 1 miliardo di
dollari che ne è costato il suo sviluppo.
E lo stesso dicasi per i costi relativi al far volare un F-16, il costo
del munizionamento impiegato, ecc.
Tutto ciò è importante perché porta un notevole contributo al debito
pubblico dello stato ebraico (circa il 75% del PIL).
Questo ci porta alle prospettive. Senza entrare qui in dettagli, lo scenario
globale in cui questo conflitto si inserisce è quello “postpicco” cui è
dedicata una vasta letteratura cui si rimanda.
In estrema sintesi: riduzione quali/quantitativa delle risorse
energetiche con conseguente peggioramento delle condizioni economiche a livello
globale, ma in modo non uniforme per i vari paesi e per le diverse classi
sociali, con conseguente crescita delle tensioni politiche, sociali e
militari. Contemporaneamente,
peggioramento complessivo delle condizioni ecologiche del Pianeta, con
particolare riguardo al clima, alla produzione di cibo, alla disponibilità di
acqua ed alla pescosità degli oceani. Un
quadro di questo tipo che influenza potrebbe avere sul conflitto
israelo-palestinese?
Israele è uno fra gli stati a più alta densità di
popolazione del mondo (365 ab/kmq nel 2012), oltre che uno fra quelli a più
alto input tecnologico ed energetico; per sopravvivere dipende totalmente dal
commercio con l’estero e largamente da aiuti economici da paesi (principalmente
dagli USA) che versano a loro volta in situazioni economiche certamente non
floride, con tendenza al peggioramento.
Anche senza la guerra, è molto probabile che subirà danni
particolarmente gravi dall’insieme dei fenomeni connessi con il procedere della
recessione globale e del picco energetico. In questo senso, può essere efficace la
strategia di Hamas di indurre Israele a spese crescenti che non possono sortire
l’effetto di annientare il nemico, ma che possono viceversa aumentare la
fragilità economica e politica dello stato ebraico.
D’altronde, la situazione dei territori palestinesi ed in
particolare a Gaza è già ampiamente drammatica anche senza la guerra, che non
può che peggiorarla. Anche in questo
caso abbiamo di fronte un “quasi stato” che vive sostanzialmente di aiuti
dall’estero, in un contesto in cui tutti i suoi principali sponsor stanno affrontando problemi economici e
politici crescenti, sia in ambito interno che estero. A cominciare dalle petrocrazie, anch’esse
strette fra crescita demografica, riduzione o stagnazione delle produzioni,
crescenti tensioni interne ed internazionali.
Non è difficile prevedere un progressivo inaridimento di molte delle
principali fonti di finanziamento attuali.
Sul piano politico internazionale, già attualmente il
conflitto in questione è slittato molto indietro nella lista delle priorità
delle potenze straniere a vario titolo coinvolte: l’espansionismo cinese, il
revanscismo russo, lo sgretolamento americano, la possibile dissoluzione
dell’Europa e dell’India, il sempre più serio pericolo di una guerra aperta fra
Arabia Saudita ed Iran sono solo alcune delle preoccupazioni che stanno catalizzando
l’attenzione delle cancellerie mondiali.
E’ probabile che negli anni a venire la guerra israelo-palestinese perda
ulteriormente d’interesse per i governi e le opinioni pubbliche mondiali, se
non come pedina nel quadro del “grande gioco” attorno alle residue riserve di
greggio di buona qualità.
E dunque, quali
potrebbero essere degli scenari realistici?
Nel breve termine, credo che semplicemente non cambierà nulla, anche se
è bene ricordare che spesso eventi storici importanti prendono le mosse da
eventi comuni. Quello di Mohamed Bouazizi non è stato né il
primo, né l’unico suicidio di protesta col fuoco, ma fu la scintilla che
scatenò una serie di rivolte destinate a cambiare il quadro geo-politico
mondiale (anche se non nel senso sperato, come spesso accade).
Inoltre, il prossimo gradino discendente nelle economie dei principali paesi impegnati in questo scacchiere (USA, EU e petrocrazie) avrà probabilmente conseguenze molto gravi sull’economia israeliana e devastanti su quella palestinese.
Inoltre, il prossimo gradino discendente nelle economie dei principali paesi impegnati in questo scacchiere (USA, EU e petrocrazie) avrà probabilmente conseguenze molto gravi sull’economia israeliana e devastanti su quella palestinese.
Ed allora? Puramente
a titolo di congettura, avanzerei tre scenari forse possibili, ma non
ugualmente probabili.
1 – Cambiamento radicale delle politiche israeliana e
palestinese. In teoria, potrebbero
entrambi capire che collaborare è l’unica strada per mitigare (anche se certo
non evitare) la durezza dei tempi a venire.
Ma la dose di odio e timore reciproci sapientemente coltivata nei
decenni su entrambi i fronti rende una tale prospettiva quanto mai
improbabile.
2 – Guerra totale. A
Cylon la guerra fra Cingalesi e “Tigri Tamil” è durata oltre 25 anni e per molti
aspetti è stata simile a quella fra israeliani e palestinesi, con forze
governative soverchianti impossibilitate ad usare pienamente il loro potenziale
per la costante presenza di civili in prima linea. Ma nel 2009 l’esercito cingalese attaccò i
territori controllati dai ribelli sparando con tutto quello che aveva su chiunque
indiscriminatamente: miliziani, ostaggi e civili; tamil e cingalesi. Il numero dei morti non è mai stato
accertato, ma sicuramente fu di parecchie diecine di migliaia di persone; la
struttura militare delle Tigri fu spazzata via e la popolazione tamil supersite
fu in gran parte internata in campi di concentramento dove molti morirono poi
di stenti. http://www.ilpost.it/2013/10/03/foto-tamil-sri-lanka-andrea-kunkl/
Potrebbe una cosa simile ripetersi in Palestina? Per adesso sicuramente no. Non lo vorrebbero la maggior parte degli
israeliani e non lo permetterebbero gli USA, ma cambiando il quadro
internazionale e peggiorando le condizioni di vita su entrambi i fronti, non è
da escludersi un’escalation di violenza al momento senza precedenti in zona.
3 – Recrudescenza progressiva. Una terza possibilità è che con il tempo gli
israeliani si vedano costretti a ridurre il loro budget della difesa, con
conseguente abbassamento dello standard tecnologico e dunque del divario fra le
forze in campo. Un simile scenario
aumenterebbe considerevolmente le possibilità operative di Hamas e forse è
questa la loro strategia. Ma non credo
che sarebbe favorevole per la popolazione civile su entrambi i fronti. Infatti, se i soldati con la Stella di
Davide si trovassero costretti a combattere casa per casa, con tecniche ed armi
non molto diverse da quelle del nemico, è probabile che su entrambi i fronti il
numero di atrocità gratuite aumenterebbe, generando una spirale di vendette al
cui confronto quella attuale potrebbe sembrare una situazione pacifica. La guerra attuale potrebbe insomma diventare
simile alla guerra civile siriana.
E le armi nucleari?
L’arsenale israeliano è stimato fra gli 80 ed i 200 ordigni, ma in
realtà tutto si basa su indiscrezioni e stime che il governo non ha mai né
confermato, né smentito proprio per disporre di una deterrenza nucleare senza
però assumersi gli impegni internazionali solitamente connessi con lo status di
“potenza nucleare” e (forse) senza neppure accollarsi le spese iperboliche
connesse con la realizzazione e la manutenzione di queste armi.
Dunque non si sa se questo arsenale davvero esista ed,
eventualmente, in quale misura sia operativo; ma se esistesse, in tempi di progressivo
collasso economico Israele si troverebbe, come altri stati, nell'imbarazzante
situazione di disporre di armi che non si potrebbero più permettere di
mantenere, ma che non potrebbero neppure smantellare (sempre per i costi
eccessivi) e nemmeno abbandonare (per i rischio che qualcun altro le
trovi). E neppure utilizzare perché si
tratta di armi destinate unicamente alla deterrenza nei confronti di potenze
militarmente preponderanti; attualmente solo l’Iran potrebbe forse rivestire
questo ruolo, ma personalmente ritengo molto più possibile una guerra fra Iran
ed Arabia Saudita per il controllo del petrolio iracheno, piuttosto che un
attacco ad Israele che ho l’impressione interessi sempre meno all'opinione
pubblica araba. Non per un sopravvenuto
desiderio di pace od altro, ma semplicemente perché pressata da problemi molto
più contingenti e direttamente sulla propria pelle (fame, disoccupazione,
abnormi disparità economiche, razionamento dell’acqua, ecc.).
In definitiva, se il governo israeliano spera di spingere la popolazione palestinese a ribellarsi ad Hamas ed accettare un trattato molto peggiore di quello a suo tempo rifiutato da Arafat, credo che si sbagli di grosso. L'isolamento, l'eccesso nelle rappresaglie e la progressiva usurpazione di territorio con sempre nuovi insediamenti ebraici stanno sortendo, mi pare, l'effetto esattamente contrario. Gli israeliani dovrebbero riflettere bene sul fatto che la loro enorme superiorità militare tenderà a ridursi; che faranno quando non saranno più in grado di mantenere la macchina bellica attuale?
Quanto ai dirigenti palestinesi, dovrebbero aver capito da un pezzo che l'unica cosa che possono ottenere con i loro attacchi sono delle rappresaglie. E se il loro scopo è quello di riportare la loro battaglia sulle prime pagine dei giornali internazionali, dovrebbero considerare che il numero di morti palestinesi necessario per raggiungere tale scopo sarà sempre più alto. Ne vale pena? Per ottenere cosa? Se il loro scopo è vedere la dissoluzione di Israele è probabile che basti aspettare: tutti gli stati attuali finiranno col dissolversi e le società con il riorganizzarsi diversamente. Se il loro scopo fosse invece quello di vedere sorgere uno stato palestinese, ogni giorno che passa ed ogni razzo che parte allontana, anziché avvicinare tale prospettiva.
In definitiva, se il governo israeliano spera di spingere la popolazione palestinese a ribellarsi ad Hamas ed accettare un trattato molto peggiore di quello a suo tempo rifiutato da Arafat, credo che si sbagli di grosso. L'isolamento, l'eccesso nelle rappresaglie e la progressiva usurpazione di territorio con sempre nuovi insediamenti ebraici stanno sortendo, mi pare, l'effetto esattamente contrario. Gli israeliani dovrebbero riflettere bene sul fatto che la loro enorme superiorità militare tenderà a ridursi; che faranno quando non saranno più in grado di mantenere la macchina bellica attuale?
Quanto ai dirigenti palestinesi, dovrebbero aver capito da un pezzo che l'unica cosa che possono ottenere con i loro attacchi sono delle rappresaglie. E se il loro scopo è quello di riportare la loro battaglia sulle prime pagine dei giornali internazionali, dovrebbero considerare che il numero di morti palestinesi necessario per raggiungere tale scopo sarà sempre più alto. Ne vale pena? Per ottenere cosa? Se il loro scopo è vedere la dissoluzione di Israele è probabile che basti aspettare: tutti gli stati attuali finiranno col dissolversi e le società con il riorganizzarsi diversamente. Se il loro scopo fosse invece quello di vedere sorgere uno stato palestinese, ogni giorno che passa ed ogni razzo che parte allontana, anziché avvicinare tale prospettiva.