Nella rete, dove tutti siamo filosofi, si verifica spesso lo sdoppiamento proprio del platonismo fra insegnamento essoterico, rivolto ai profani, ed esoterico per gli iniziati. Platone non l'ho mai potuto sopportare.
Buon anno a tutti.
Blog di Luca Pardi e Jacopo Simonetta sui limiti di questo pianeta.
sabato 31 dicembre 2011
giovedì 15 dicembre 2011
C'era una volta l'Economia.
Riprendo questo articolo attribuito a Geminello Alvi ma rintracciabile in rete solo sul sito signoraggio.com.
Personalmente dopo aver letto varie cose di Alvi mi sembra in linea con il suo modo, originale, di vedere l'economia. E' abbastanza lungo, ma molto interessante.
(di Geminello Alvi)La favola della moderna economia ha inizio nel 1776, quando Adam Smith, filosofo ed economista scozzese, dà alle stampe il libro: La Ricchezza delle Nazioni. Egli osserva che, per favorire il progresso materiale della società, è possibile ed è necessario rovesciare l’esortazione cristiana, cioè l’invito ad abbandonare i propri beni per darli ai poveri, e perseguire invece il profitto personale; perché l’impegno dei singoli individui ad arricchirsi e a migliorare le proprie condizioni materiali si tradurrà, grazie a quel potente mito della «mano invisibile», anche in un vantaggio collettivo. In un’epoca che vede l’ingresso delle macchine e dei primi automatismi produttivi, Adam Smith si interessa anche dell’organizzazione del lavoro. La manualità, la forza fisica, l’abilità, l’intelligenza organica vengono messe in ombra dalla potenza della macchina a vapore, dalla inesorabile precisione e dall’infaticabile movimento dei congegni meccanici ad essa collegati. Il lavoro dell’uomo entra in simbiosi con quello della macchina, pertanto si meccanizza e si macchinizza: la sua attività viene scomposta in tante operazioni, ciascuna delle quali assegnata a differenti individui. è il principio della separazione del lavoro, che porterà più tardi al taylorismo, al fordismo o alla catena di montaggio. In altri termini si può dire che per rendere più produttivo un lavoro stupido occorre renderlo ancora più stupido. A un più alto livello dell’organizzazione industriale, amministrativa e governativa, la separazione del lavoro prende il nome di specializzazione tecnica, di separazione delle competenze; oggi degenerate nelle burocrazie statali e in quelle private - altrimenti dette management; dove, spesso, per una sorta di nemesi storica, la mano sinistra non sa quello che fa la destra.
Con audacia si è ricollegata la nascita della moderna economia all’evoluzione della matematica che, da sintetica, come sviluppata dai greci, si trasforma, grazie a Cartesio, a Newton e a Leibniz, in analitica, dirigendosi verso lo studio locale delle curve. è l’inizio del capitalismo. Scienza newtoniana e capitalismo sono impensabili separati perché ambedue richiedono un pensiero privo di levità, densificatosi nella costruzione di artifici. Non importa al calcolo mercantile la percezione della vita nella natura, ma piuttosto la sua meccanizzazione. Il profitto personale, nella filosofia di Adam Smith, va a costituire la natura umana, pertanto il corso della storia economica viene rimodellato su questo pregiudizio, nonostante che ricerche etnologiche e antropologiche indicassero il contrario, ponendo invece in risalto la natura sociale, collettivistica e altruistica dell’organizzazione della vita dell’uomo.
Invece Adam Smith, mistificando il passato, mette un’ipoteca sul futuro; perché, come avviene con lo iettatore di Pirandello, l’uomo e la società si dovranno adeguare a quella perversa filosofia. L’entrata in campo della moderna economia è accompagnata da nuovi concetti, e anche dalla trasformazione di vecchi termini: i bisogni dell’uomo, la scarsità, il lavoro, il mercato, lo scambio, il capitale, i mezzi scarsi, i mezzi di produzione, la libera concorrenza. Parole e locuzioni apparentemente neutre, ma che pervertiranno la mente e il pensiero. Ne riparleremo alla fine di questa grottesca favola.
La rivoluzione industriale e l’organizzazione capitalistica inondano la società di merci, di prodotti in serie; la società, sommersa dalla produzione materiale, non riesce piu` a relazionarsi e a dialogare con lo spazio e il territorio, inizia quindi la graduale scomparsa dell’architettura e dell’urbanistica, del paesaggio urbano e rurale. Strade e piazze, case e palazzi vengono sacrificati alla misura e alla quantificazione delle aree e delle cubature. Non sarà più possibile, per una nazione e per un popolo, concepire e realizzare progetti che lasceranno un’impronta nel territorio, duraturi nel tempo; come le città imperiali romane, il romanico dei comuni, il rinascimento delle signorie, il barocco dei papi. Nuovi e amorfi materiali da costruzione vengono depositati e spalmati, a formare una crosta di cemento e asfalto che caratterizza il territorio urbano moderno. Oggi l’architettura e l'urbanistica sono diventati sterili esercizi stilistici, degli assolo del designer attore senza più rapporto con l’ambiente, il territorio, la cultura e l’arte. Con la morte dell’architettura, cioè sin dalla rivoluzione industriale - anche l’arte, la letteratura e la scienza hanno soltanto il compito di servire come una pelle artificiale di aspetto giovanile, che contribuisce a tenere saldamente insieme lo scheletro, in dissoluzione, del tempo.
Nasce, con il capitalismo, il concetto della creazione artistica, nasce quel personaggio avulso dall’ambiente in cui vive, una sorta di alterità in una società dedita alla produzione materiale. In altre epoche, invece, il fatto di dipingere, di scolpire, di suonare era connaturato e consustanziale al proprio ambiente, pertanto non ci si curava di firmare le proprie opere. Federico Zeri, giustamente, si rammaricherà di avere indugiato nell’esercizio dell’attribuzionismo seguendo gli insegnamenti del positivista Giovanni Morelli, invece di porre l’attenzione allo studio delle condizioni in cui le opere venivano prodotte.
Comunque Adam Smith vive un’epoca di ottimismo, la sua filosofia celebra il progresso e la ricchezza ormai alla portata di tutti; per converso la storia celebra l’opera e l’autore, che entrano così nel mito. Sembra che nulla possa ostacolare le sorti progressiste della nuova società. E invece no, la società della disperazione è dietro l’angolo: l’ambiente contadino, con la sua frugalità e umanità, presto si trasforma in quel paesaggio della prima industrializzazione inglese, che molti romanzieri dipingono come un abisso di abiezione: con l’abbrutimento della persona e dell’ambiente, coi lavoratori sfruttati e violentati, coi bambini in miniera, con la miseria senza speranza.
Si assiste, per la prima volta nella storia, anche a una stridente contraddizione: una produzione di beni materiali senza precedenti per quantità, e una condizione umana sotto la sussistenza. Si pensa però che questa debba essere la condizione umana da sempre. E così, sempre nell’Inghilterra povera di storia, un ecclesiastico, il reverendo Robert Malthus, sentendosi chiamato a spiegare lo stato delle cose, dà inizio alla filosofia della disperazione. Egli giustifica candidamente lo status quo in quanto è necessario che gli uomini restino nella miseria, perché è la condizione e lo sprone affinché essi siano costretti a lavorare. Non bisogna dare loro niente oltre lo stretto necessario, perché essi per natura sono incapaci di gestire il di più.
Non a tutti piace la spiegazione. Non piace agli utopisti: Proudhon, Fourier, Owen; la spiegazione non piace soprattutto a un ricco borghese, Karl Marx, che denuncia un fatto ovvio: che il ricco più ricco ruba al povero più povero, e lo deruba attraverso l’appropriazione di una quota parte del suo lavoro, il plus valore, che va a costituire i mezzi di produzione, il cosiddetto capitale, dei datori di lavoro. Marx fa anche notare che, nel processo di appropriazione, c’è il rischio di giungere al fondo della pentola, quando non ci sarà più niente da rubare: il lavoratore, che ha prodotto il capitale di cui necessita il padrone per costituire il sistema produttivo, non serve più perché verrà sostituito da questo; si verificherà quindi quel fenomeno che i tecnici definiscono come «la riduzione tendenziale del saggio di profitto»: il fuoco, bruciando, esaurisce il proprio combustibile.
Marx predice allora la crisi del capitalismo, e dalla polvere della sua rovinosa caduta sorgerà il sol dell’avvenire, il comunismo. Come il suo antagonista virtuale, Adam Smith, anche Marx, quando divide la società in classi in lotta fra loro, effettua una forzatura e una distorsione della storia e della società a proprio uso e mal uso. Introduce il sentimento dell’odio di classe; un odio spesso consumato all’interno della propria classe, dalla spocchia del ceto intellettuale nei confronti degli operai che si sente chiamato a difendere. Notevole e affascinante è l’analisi di Marx riguardo ai connotati che gli oggetti assumono nel mondo capitalistico: non più aventi valore di uso, bensì ridotti a valore di scambio. è la cosiddetta reificazione: qualsiasi cosa viene ad assumere un carattere materiale con un prezzo.
Da qui si eleva un formidabile edificio sociologico, pari all’altro che più tardi Sigmund Freud erigerà sulla psiche e sull’inconscio. Al contrario di Marx, che interpreta la crisi della società in quanto determinata da forze esterne al singolo, Freud si concentra sui conflitti dell’uomo con se stesso. Ancora oggi vi sono circoli dove intellettuali di rara raffinatezza combinano l’analisi marxiana con quella freudiana, e hanno la pretesa di spiegare la struttura del mondo e dell’uomo a tutti gli uomini e al mondo intero. Possono realmente apprezzare il genio di Marx e di Freud soltanto coloro che vedono con quanta precocità essi definiscono le regole del dramma moderno. Sono loro che forgiano i concetti definitivi che sarebbero serviti a definire e a orchestrare il nuovo tipo d’attore, «l’uomo» industrializzato.
Il lavoro salariato apporta un nuovo tipo di sofferenza che distrugge sia gli uomini sia le donne. Tutti i lavoratori retribuiti sono vittime della stessa epidemia di disorientamento, solitudine e dipendenza. Questi sentimenti generano interpreti politici e l’élite di una nuova classe. La diagnosi dell’afflizione universale diviene l’arena della carriera di nuovi professionisti - educatori, medici e altri ingegneri sociali - che prosperano producendo programmi, orientamenti e terapie.
Per certi versi l’analisi di Marx è incontrovertibile, senza vie di uscita, mette perciò in allarme le istituzioni minacciate da scioperi e rivolte popolari. Ma come in un appuntamento con la Storia, dalle nazioni più importanti, come i tre re magi, Menger, Walras e Jevons accorrono al capezzale del capitale e cercano di arginare le forze sociali e intellettuali che il marxismo aveva messo in campo.
Con una mossa del cavallo vengono scombinate le carte in tavola e scambiati gli attori della favola: non vi sono più i capitalisti e i proletari, i padroni e i lavoratori, i ricchi e i poveri; bensì, alternativamente, in diversi momenti della nostra vita, siamo tutti produttori e tutti consumatori, tutti venditori e tutti compratori. Anche il più sfortunato, si fa osservare, può vendere il proprio lavoro e contrattarne - incredibile - il prezzo.
Siamo tutti soggetti, nei nostri atti di vendita e di acquisto, alle leggi della domanda e dell’offerta che, in un mercato perfetto, non possono essere modificate dal singolo attore. Finalmente! L’economia ha raggiunto il suo obiettivo: la scoperta delle sue leggi naturali, l’estromissione dell’uomo dalla scena dei fatti economici per far posto alle curve che descrivono i meccanismi della domanda e dell’offerta, per far posto a un formidabile apparato matematico che mette in relazione le forze del mercato per realizzare le condizioni di equilibrio: una situazione che si raggiunge quando si compra tutta la quantità desiderata al prezzo desiderato; e quando, contemporaneamente, si vende tutta la quantità desiderata al prezzo desiderato. Marginalismo o economia neoclassica è il nome dato alla nuova teoria.
Occorre a questo punto seguire gli sviluppi di una favola parallela, la finanza. Lo scambio di merci, a differenza di come oggi lo intendiamo, in altre epoche rivestiva un aspetto marginale nella vita della società. La rivoluzione industriale, la riduzione dell’uomo alla dimensione economica, l’atomizzazione dell’attività produttiva, l’esplosione della produzione industriale di merci, l’affermarsi della mentalità di mercato, con il conseguente febbrile scambio di merci, sono fenomeni nuovi, di notevole intensità ed estensione. Si impone pertanto una riflessione circa la natura e il significato del mezzo di pagamento, la moneta. Si è già accennato al lavoro come merce di scambio; con maggiore perplessità si può parlare della terra e delle risorse naturali come merce di scambio; anche se, volendo essere coerenti fino in fondo, si dovrebbe parlare anche dell’aria come risorsa naturale e quindi come merce di scambio; allora una persona si potrebbe trovare nella situazione di non poter respirare per mancanza di potere di acquisto.
Quando poi si parla della moneta come merce si scivola in un discorso ambiguo, perché ci si accorge subito che essa può assumere la caratteristica opposta, quella di segno. Un’ambiguità simile a quella dei fisici quando parlano della natura della luce, instancabile viaggiatrice, ora onda nell’universo pieno, ora proiettile nell’universo vuoto. (In questo eccesso di visualizzazioni che mutuamente si escludono, anche i rilievi sperimentali falliscono, e lasciano il campo alle eccessive formalizzazioni einsteiniane, che nascondono le difficoltà dietro antiintuitive relazioni di trasformazione).
La moneta merce, quale l’oro, l’argento o il tabacco, presenta una rigidità dovuta alla sua base materiale difficilmente controllabile o modificabile; al contrario, la moneta segno è flessibile perché basta un provvedimento governativo per stampare e creare nuova moneta. Comunque, fino a una certa epoca, la moneta c’era, come la luce, e non ci si faceva troppe domande sulla sua natura; tutt’al più capitavano degli inconvenienti come in Francia con John Law e con gli assignats. La celebre relazione quantitativa, come la celebre legge di Gresham per cui «la moneta cattiva scaccia la buona», doveva essere sottotraccia nella mente di molti, molto prima che il filosofo David Hume e l’economista Irving Fisher la esplicitassero nella formula: MV=PQ; una relazione di stato come quella termodinamica che collega la pressione, il volume e la temperatura di un gas: PV = RT. Nulla ci dicono, queste relazioni, circa le modalità del raggiungimento di un particolare stato; per cui, se per le leggi della termodinamica si può indifferentemente affermare che: «un fluido compresso si riscalda» e «un fluido riscaldato si espande», similmente, per le leggi della circolazione monetaria, si può indifferentemente affermare che: «un aumento della massa monetaria provoca inflazione» e «l’economia ristagna se la moneta non circola» (trappola della liquidità).
Alla moneta segno e alla moneta merce se ne aggiunge una terza, il credito bancario, un tipo di moneta che alla flessibilità unisce la discrezionalità e l’usura, ma che oggi costituisce la gran parte della massa monetaria. Quindi non sono solo le autorità centrali che possono creare moneta, ma anche le banche, che, sulla base dei versamenti in moneta effettuati, creano un credito pari a diverse volte l’ammontare dei depositi. (Gli storici fanno osservare che già nel tardo medioevo, con le lettere di cambio, erano state poste le basi del sistema bancario).
Vengono date delle regole che stabiliscono le relazioni fra la moneta segno e l’oro, la cosiddetta base aurea o gold standard - al fine di creare stabilità e flessibilità -, fra la moneta depositata nelle banche e il volume dei loro crediti, la riserva - per evitare la bancarotta. La necessità degli scambi fra divise di diversi paesi complica oltremodo la gestione della multiforme moneta. Ai governi, che devono far quadrare i bilanci, si presenta l’annosa questione: se accettare la devalutazione attraverso l’emissione di carta moneta, col rischio di perdere il controllo della situazione, come in Germania negli anni ’22-’23, o di forzare la deflazione, col rischio di una stagnazione economica, come nel ’29.
L’una o l’altra inevitabilmente favoriscono o penalizzano contrapposte categorie: gli imprenditori o i rentier. Il complicato artificio barocco che si viene a creare intorno alla moneta farà impazzire il maggiore poeta del ’900 [nota di SP: Ezra Pound], e, in tempi recenti, porterà all’indignazione un combattivo professore di diritto di Teramo [nota di SP: Giacinto Auriti], che denuncerà per truffa i vari governatori della Banca d’Italia. Si fa notare che anche gli altri termini della relazione quantitativa non hanno una sicura definizione. Le quantità di merci prodotte, Q, aumentano non solo per effetto del progresso tecnologico ma anche in seguito alla riorganizzazione della società: si pensi ai parcheggi e all’uso delle strade, all’acqua, al legnatico (equivalente dell’energia), allo smaltimento dei rifiuti, ieri gratuiti e oggi a pagamento. I risultati del monitoraggio del livello dei prezzi, P, è sempre oggetto di discussioni; o meglio, c’è sempre stato uno sconcio interesse a mascherare una notevole inflazione (ad esempio, nel calcolo dell’inflazione non viene mai considerato il costo delle case, come se fossero investimenti e non abitazioni).
Pure le abitudini di pagamento, che dovrebbero essere registrate da V, sono di difficile verifica. Pertanto, se già la relazione quantitativa fondamentale ha così fragili fondamenta, si ha il sospetto che gli arditi sviluppi matematici successivi possano ridursi a esercizi accademici e a spauracchi per allontanare una pacata riflessione e un controllo democratico.
La grande guerra determina le crisi valutarie degli anni ’20, il crollo della borsa nel ’29, la grande depressione e la concomitante nascita dei totalitarismi. Questi sconvolgimenti favoriscono anche una riflessione critica sulle venerate dottrine economiche. Spesso in economia la teoria segue la pratica; la necessità e il desiderio di un determinato corso mettono in azione gli studiosi, la nuova teoria diventa la ratifica dei desideri di determinate classi o gruppi di pressione. Quasi tutti i governi, dopo il ’29, con empiria e buon senso, abbandonano il gold standard, abbandonano il principio del laissez-faire ed entrano come attori principali nella gestione dell’economia; perché non ci va molto a capire che, se un largo strato della popolazione è senza lavoro e senza reddito, occorre che qualcuno glielo dia; e se l’impresa privata, per qualche increscioso e sconosciuto inceppamento dei suoi meccanismi, non ce la fa, occorre forzare dall’esterno, con l’intervento pubblico.
Qualche anno dopo John Maynard Keynes giustifica l’interventismo statale con una ponderosa opera di letteratura economica: Teoria Generale dell’Occupazione, dell’Interesse e della Moneta. L’economia controllata da un termostato? Il keynesismo che esplode in tutto il mondo tra gli anni ’20 e ’30, e che prende il nome di Fascismo, New Deal e Socialismo in un solo paese, è il tentativo di mettere il termostato all’economia, in modo che meccanismi di retroazione coscienti e non spontanei permettano di conservare lo specifico sistema produttivo capitalistico. Keynes dice esplicitamente che la sua proposta rappresenta la via di salvezza del capitalismo, il quale tende ormai a distruggersi da sé.
Alla fine della seconda guerra mondiale si stipulano gli accordi di Bretton Woods, dove si sancisce il ritorno al gold standard, un modo per mascherare il dollar standard, ovvero il signoraggio statunitense. Ma la Francia di De Gaulle accusa gli Stati Uniti di esportare inflazione; e insieme ad altri stati europei cominciano a risucchiare oro statunitense. Pertanto Nixon, con un’azione brutale, abolisce la convertibilità, dando così inizio all’epoca delle monete fluttuanti. Contemporaneamente agli accordi di Bretton Woods vengono istituiti il Fondo Monetarario Internazionale e la Banca Mondiale, più tardi il World Trade Organization: organismi super partes per regolare il mercato monetario e quello delle merci, e per favorire lo sviluppo e la ricostruzione dei paesi emergenti. Non si sa se per astuzia dei governanti occidentali o per l’eterogenesi dei fini, oggi quelle organizzazioni, con abili operazioni, riuniscono e controllano i capitali di tutto il mondo, ma sempre sotto gli auspici della democrazia e del liberalismo.
Il «costo del denaro» è forse oggi l’espressione più ambigua che circola nel mondo della finanza, un modo per dire che un prestito va restituito con interesse. Ma l’espressione è senza senso, e potrebbe suggerire la «fame del pane» o la «sete dell’acqua». Inoltre, quando mai, se si chiede in prestito una macchina o un attrezzo a un amico o a un conoscente, ci si sente in dovere di restituirgli qualcosa di più di quella macchina o di quell’attrezzo? Del resto, al contrario di quello che si pensa, il finanziamento delle imprese all’alba della rivoluzione industriale proveniva da individui, famiglie, amici, vicini, in modo assai poco formale. Anche l’analisi della parola Banca dovrebbe far riflettere. Banca era un termine per indicare un luogo di deposito per tenere al sicuro la moneta che in epoche passate era ingombrante e di difficile gestione. Ma oggi quella necessità non sussiste, tanto più che l’avvento dell’informatizzazione sta portando alla scomparsa della banconota e dell’assegno, gli ultimi residuati fisici della moneta.
Le persone a modo, altrimenti dette liberali, rispondono sostenendo che oggi la banca, anche se ha cambiato natura, grazie al credito e ai propri strumenti di analisi finanziaria, trasforma il risparmio raccolto in un volano economico, favorendo un armonico sviluppo della libera impresa - ed è proprio l’armonia e la libertà ciò che oggi mancano. In alternativa e in parallelo alle banche si è sviluppato il mercato azionario e obbligazionario: strumenti ancora più ambigui di finanziamento delle imprese, quindi, indirettamente, di creazione di moneta. Il risparmiatore acquista – per così dire – parti di un’azienda, le cosiddette azioni, o presta – per così dire – soldi a un’azienda, le cosiddette obbligazioni; le une e le altre sono in balia dei capricci del mercato finanziario, delle sue fluttuazioni, dei giochi speculativi; tanto che, senza mistero e senza vergogna, le operazioni di borsa vengono anche chiamate «giochi di borsa» e gli sprovveduti risparmiatori vengono additati come «parco buoi». L’interesse bancario e i corsi azionari, mediamente in rialzo nel tempo, trovano poi, purtroppo, un triste contrappeso in una fasulla o disordinata crescita, e in una cripto – ma neanche tanto - inflazione.
Ma è ora di riprendere il filo della favola principale e portarla a conclusione. Verso la fine dell’800 si pensa che il mercato debba svolgere per l’economia quello che l’agorà greca aveva svolto per la vita politica e sociale. Una copiosa letteratura fiorisce intorno al mercato, il principe, o il principio, dell’economia. Ma già un tarlo mina la poderosa impalcatura ideologica che lo sorregge. è abbastanza semplice osservare che una situazione iniziale di effettivo mercato concorrenziale, che si viene a creare con la nascita di un nuovo prodotto, tende a trasformarsi in monopolio od oligopolio, perché l’industria o l’impresa, per diventare più competitiva, deve cercare di allargarsi per meglio ripartire le spese fisse e i costi di gestione; e nel processo di competizione e di espansione assorbirà ed eliminerà via via i propri concorrenti. In un certo senso il mercato concorrenziale è autocontradittorio, perché tende a distruggere sé stesso - come il turismo.
L’inconsistenza del marginalismo, il supporto teorico al libero mercato, del mercato autoregolato, viene definitivamente resa pubblica da un riservato professore piemontese, Piero Sraffa, che in poche pagine, senza una formula, ma con un linguaggio asciutto ed essenziale, ne dimostrerà dall’interno la fallacia delle premesse e delle conclusioni. (Qualche anno dopo un angelo dell’economia dimostrerà che il mercato autoregolato non è mai esistito nella storia, che è un fenomeno assolutamente nuovo, improvviso. Oggi vi sono tutte le prove per affermare che l’idea di un mercato autoregolato implica una grossa utopia che distruggerà l’uomo fisicamente e trasformerà il suo ambiente in un deserto). Produzioni di Merci a Mezzo di Merci è l’unico libro di Sraffa. Lì si dimostra che per ogni particolare distribuzione del reddito tra salari e profitti esiste un corrispondente insieme di prezzi relativi. Di conseguenza, non si può dire che un insieme di questi prezzi relativi sia migliore di un altro, perché sono tutti strumentali alla distribuzione del reddito, l’unica cosa che può diventare migliore o peggiore.
Sfortunatamente la lezione di Sraffa viene poi tradotta in sindacalese con «il salario quale variabile indipendente». Le politiche interventiste, ispirate alle teorie keynesiane, e la presa di distanza dai ciechi meccanismi del mercato saranno comuni, nel dopoguerra, alle economie dei paesi occidentali, saranno anche provvidenziali per le nazioni distrutte dall’ultimo conflitto mondiale. Grazie a queste politiche è stato possibile quel progresso, secondo i parametri economicisti, di cui le nazioni occidentali hanno goduto dal dopoguerra e per 25 anni ininterrottamente. Poi, all’inizio degli anni ’70, si assiste a un fenomeno inflattivo a due cifre, determinato dalle rivendicazioni salariali e dall’impennata dei prezzi del petrolio, che interessa tutte le economie occidentali. I restauratori e i controriformisti non aspettavano altro. Servendosi di un armamentario di idee regressive, a gran voce accusano gli stati scialacquatori e invocano il primato dell’impresa privata, della libera iniziativa. Si risponde alle difficoltà di una vecchia politica economica, nata quarant’anni prima, con una politica che, quarant’anni prima, era già vecchia. Alcuni economisti si prestano al gioco del tiro al piccione-stato. Uno di questi, Milton Friedman, l’economista stupido, rispolvera la vecchia equazione quantitativa; poi, confondendo la correlazione con la causalità, stabilisce, per via osservativa, la costanza della velocità di circolazione, V. Quindi gli viene molto semplice, avendo eliminata un’incognita, addossare la responsabilità dell’inflazione alle autorità statali che, per finanziare le proprie economie spendaccione, aumentano la massa monetaria.
Nicholas Kaldor gli fa però notare che la creazione di moneta, in un’economia creditizia, è endogena e non esogena – inutilmente. Due bifolchi della politica, Margaret Thatcher e Ronald Reagan, da un capo all’altro dell’oceano, adottano i suggerimenti di Friedman, mettendo così a soqquadro le proprie monete e le proprie economie nazionali. La debolezza intellettuale di Friedman è comunque oggetto di molti sarcasmi. In suo soccorso arrivano però gli economisti troppo intelligenti: Barro, Lucas, Sargent, Wallace, i virtuosi della matematica, da loro usata per dimostrare che, per quanto riguarda le politiche economiche, vale il detto: «chi non fa non falla», cioè che stati e governi si devono guardare dal cercare di influire in qualche modo sui processi economici, perché questi posseggono una razionalità interna, ben conosciuta dai singoli individui ed operatori. Questi hanno delle aspettative razionali ben conosciute, e neutralizzeranno qualsiasi intervento inteso a modificare la direzione e il corso naturale delle vicende economiche.
Una posizione-situazione, questa, che si ispira al detto: «fatta la legge trovato l’inganno». La politica del non intervento, suffragata da tanto ingegno, fa molto comodo al pesce grosso; ed è quella che di fatto è oggi adottata dai politici di destra, di sinistra, di tutti i colori e di tutte le ideologie. È successo l’impensabile. Cose che si ritenevano ragionevolmente acquisite, il pensiero di Sraffa, Keynes, Kaldor, eccetera, non è già discusso o confutato, ma semplicemente passato sotto silenzio o dimenticato, mentre invenzioni ingenue e inverosimili, come l’economia dell’offerta o il monetarismo, vengono alla ribalta. Parimenti, i cantori del neoliberismo presentano le loro aberrazioni come evidenze del buon senso, quando la libertà assoluta dei movimenti del capitale rovina settori interi della produzione di quasi tutti i Paesi e l’economia mondiale si trasforma in un casinò planetario.
È rinato il mito del mercato, in forma ancora più radicale, pertanto più ideologica; si arriva anche a pubblicare libri dal titolo: Privatizziamo il Chiaro di Luna - forse per metterlo in concorrenza con la luce del sole; spregiudicatamente si offre al mercato, cioè ai padroni ladroni, la proprietà delle autostrade, della rete idrica, elettrica, ferroviaria. Si pretende cioè di mettere in un mercato concorrenziale attività per loro natura esclusive.
Ovviamente i guadagni stratosferici dei gestori della sala mungitura dei servizi di pubblica utilità sono un formidabile olio persuasivo nei confronti dei politici di ogni colore e fazione; giornalisti, professori, tecnici, storici fanno a gara ad esaltare la nuova scoperta dell’economia moderna, il mercato.
Ovviamente non mancano gli ingenui e gli utili idioti: gruppi e circoli che, con l’ostinazione dei nuovi arrivati o dei convertiti dell’ultima ora, recitano le formule di rito: «meno stato e più mercato», «la classe dei produttori contro quella dei burocrati». Anche le persone più leali, serie e d'antica prova si sono convinte della bontà del mercato. Ahi che è fatto - con intenti criminosi, all'opposto d'ogni lealtà - dalle multinazionali. I ricchi più ricchi hanno intuito: le produzioni massive messe in opera da una manovalanza sottopagata, daranno loro un potere assoluto. E lo hanno realizzato con una spietata e inesorabile consecuzione a partire dai paesi più poveri, per semplificare ed esemplificare, dallo Zambia all'Argentina. Vi sono stati processi politici per massacri bellici, concepiti e realizzati; ora chiediamo processi per crimini che hanno portato e portano alla fame, alla disperazione e alla morte, vittime ancora più numerose. Contro i ricchi più ricchi che hanno sradicato le colture e la cultura, ovunque non gli sono state contrapposte l'indisciplina, la refrattarietà e la ribellione.
Miliardi di ettari di terra ora incapaci di soddisfare le loro popolazioni, proprio per la cancellazione di ciò che era stato prodotto e li aveva alimentati per secoli. Aggiungi che «ragioni» politiche e religiose hanno indotto ad una moltiplicazione anche criminale della crescita demografica. Oggi abbiamo ovunque nel mondo una agricoltura transgenica mostruosa con rese sempre più alte e qualità peggiori, per confezionare bevande e cibi da imporre coi mezzi più ingannevoli, quale la pubblicità, i più orridi, quale la guerra, a popolazioni che si sono trovate nello stesso momento prive del nutrimento abituale e avvelenate dalle farine, dalle coca cole e dagli hamburger altrui.
L’integerrimo economista, Federico Caffè, piuttosto che assistere inerme all’impazzimento generale preferisce togliere il disturbo: letteralmente scompare; John Kenneth Galbraith, il decano degli economisti americani, invece, si rifugia nel sarcasmo e nei ricordi. E siamo arrivati alla fine della favola, e si spera di non arrivare alla fine della nostra civiltà, perché ci sono i segni di una catastrofe imminente. Dopo avere spazzato via l’architettura e l’urbanistica, il mercato oggi vuole depredare la Terra stessa, con l’inquinamento dell’aria e delle acque, con le devastazioni del territorio, il sovvertimento climatico e l’esplosione demografica. Il sistema industriale è lasciato andare alla deriva.
Si pensi che la quasi totalità delle materie prime e dell’energia poggia su una sola risorsa, il petrolio, per giunta in via di esaurimento e concentrato in poche regioni politicamente molto instabili. La rapina comunque interessa tutto l’ecosistema, dalle foreste secolari ai fondali marini. L’uomo economico non si preoccupa più del suo ambiente, anzi è come un bambino che, trovandosi in casa con i muri di cioccolata, si è messo a mangiarli, senza capire che presto il resto della casa gli cadrà sulla testa. Tutto questo in nome di uno sviluppismo economicistico che conduce alla disperazione, di conseguenza conduce anche a un pericoloso rigurgito di fondamentalismo religioso, islamico e cattolico.
Forse questa favola poteva seguire un altro corso. Se i nostri economisti avessero riflettuto maggiormente sulle parole e sul loro uso avrebbero risparmiato all’umanità tragedie a non finire. Quello che è successo da più di duemila anni nella filosofia, si sta ripetendo da più di duecento anni nell’economia: l’uomo sta ingannando se stesso e il proprio pensiero. I sacri testi, nelle prime pagine, spiegano che l’economia è la scienza che studia l’allocazione dei mezzi o risorse scarse per massimizzare la soddisfazione dei bisogni crescenti; cioè l’economia come un problema di ottimizzazione, di min-max.
Si può far notare che un italiano in buona salute soddisfa i suoi bisogni tutti giorni. Fisiologia a parte - è comunque ridicolo parlare, come fanno i testi, di bisogni insoddisfatti o sempre crescenti nel mondo occidentale, quando oggi metà della popolazione cerca strenuamente di vendere qualcosa all’altra metà recalcitrante; spesso usando mezzi illeciti o imbecilli, come la pubblicità. È assurdo parlare di bisogni insoddisfatti quando oggi la tecnologia ci mette a disposizione migliaia di opere musicali e letterarie, racchiuse in astucci di microelettronica, e a un costo irrisorio.
Pertanto, la sfida di Amleto: «Posso essere racchiuso in un guscio di noce e sentirmi sovrano dello spazio infinito» oggi è purtroppo ribaltata in un sentimento di nullità: «Ho il mondo racchiuso in un guscio di noce e non ho il potere su niente». Un’altra assurdità economicistica proviene dall’analisi marxiana, eredita da Adam Smith, del lavoro come merce. Perché gli economisti, quando trattano il lavoro come merce, trasferiscono un proprio modello, limitatamente valido, a tutte le attività umane. Mentre il lavoro è un modo di esplicarsi della persona, un modo per manifestarsi, per costituire il proprio essere. Difatti, cosa sarebbe Mozart senza la sua musica? e Raffaello senza i suoi dipinti? Avrebbero prodotto di più o di meno se avessero ricevuto in vita l’attuale valore monetario delle loro opere?
Considerazioni analoghe si possono avanzare anche per i lavori più umili: l’agricoltore soddisfatto della bontà dei frutti che ha coltivato, il muratore soddisfatto della bellezza della casa che ha costruito. Scarsità. L’acqua come «merce scarsa» è l’epitome dell’aberrazione dell’economicismo odierno. L’acqua è quella che è. Una nazione o un popolo si deve adeguare alle disponibilità e alle situazioni presenti. L’eschimese, che vive sull’acqua, e i carovanieri del deserto non dicono che l’acqua è abbondante o scarsa. Essi organizzano la loro vita, la loro attività in relazione all’acqua che hanno a disposizione. Anche l’attrazione gravitazionale che ci tiene a terra è quella che è, e un ingegnere si farebbe ridere dietro se dicesse che è abbondante o scarsa. Ovviamente il concetto di scarsità fa molto comodo, e ci dovremmo aspettare di vedere commercializzata anche l’aria.
Gli è che le risorse sono scarse anche in virtù di un condizionamento culturale: si pensi all’oro e ai diamanti. Crescita e PIL. La crescita fisica di un individuo, la crescita di piante e di animali è un fenomeno transitorio nell’arco della loro vita. Oggi invece una regressione primaria porta a considerare la crescita economica o l’aumento del prodotto interno lordo, il PIL, come l’obiettivo economico primario; non ci si accorge che, sommersi dalle merci, come nel corpo sovralimentato, le funzioni vitali rallentano e si vive male. (Questa regressione primaria colpisce anche l’indagine cosmologica, attaccata in modo infantile al «grande botto» e alla consecutiva espansione dell’universo, nonostante che semplici osservazioni, oramai alla portata di cannocchiali amatoriali, smentiscano la teoria. Ma non si può abbandonare la riposante immagine di un universo che cresce). L’eccesso di materiale-merci derivanti dal forzato aumento del PIL trova sfogo nel sovraconsumo della classe burocratica pubblica e privata - altrimenti detta management.
Per giustificare la propria esistenza, la burocrazia avanza come una lava che trasporta cumuli di normative e controlli capricciosi, valanghe di divieti e obblighi assurdi. Dopo il passaggio della burocrazia amministrativa arriva quella medica che estende la medicalizzazione della vita, quando va bene; quando va male blocca semplici e gratuite terapie a favore di terapie costose e dannose; quando va malissimo inventa delle terribili malattie e conseguenti progetti per costosissime ricerche per combatterle.
Comunque le istituzioni più efficaci nel consumare PIL sono la scuola e il sistema pensionistico. Le strutture scolastiche sono ormai diventate immani parcheggi per studenti e lucrose fonti di reddito per gli insegnanti. Si è però obbligati a sostenere una specie di recita o di rito, dove un certo numero di nozioni deve fluire da una parte a un’ altra, senza la passione di chi deve insegnare e l’interesse di chi deve apprendere, e con frustrazione per entrambe le parti. È motivo di perplessità quando, per denunciare la finzione scolastica, si fa notare l’apprendimento più difficile per l’uomo, dal punto di vista fisico e intellettuale, camminare e parlare, avviene grazie esclusivamente alle cure parentali.
Se l’ingresso nel mondo del lavoro è ritardato, la sua uscita è anticipata, anche se, in un gioco delle parti, oggi sembra si voglia rimettere in discussione l’età della pensione. Ci sono ancora degli ingenui che discutono circa il significato economico del complesso militare industriale: se è solo un assorbitore di risorse, di PIL, oppure se può funzionare come moltiplicatore keynesiano. Ma si tratta di briciole: il keynesismo militare ha fatto la sua epoca, anche se il Pentagono ordina ancora giocattolini e gli States si impegnano in stupide guerre.
Una maggiore riflessione occorreva rivolgere alla moneta che è il sangue dell’economia. Non è possibile spiegarsi la struttura, la funzione e l’essenza stessa dello strumento monetario, senza muovere da considerazioni strettamente giuridiche. Come è noto, le definizioni oggi proposte della moneta sono riconducibili tutte alle due ipotesi di «valore creditizio» e «valore convenzionale». Poiché, sia il credito che la convenzione sono delle fattispecie giuridiche, è ovvio che sfugge al controllo scientifico dell’economista ogni possibilità di un’analisi approfondita della fattispecie.
Se a ciò si aggiunge che la moneta si manifesta in quella forma particolare per cui il simbolo viene considerato di «corso legale», ci si accorge che l’istituzionalità e la rilevanza giuridica che il simbolo monetario assume nei confronti della coscienza sociale fanno sì che il valore monetario si oggettivizzi come bene in virtù di un procedimento creativo che è esclusivamente giuridico. È solo in un secondo tempo che l’economista può prendere in considerazione questo bene e valutarlo come protagonista di grande rilievo nelle vicende economiche. Ove mai non accettasse come punto di partenza dell’indagine monetaria la fenomenica giuridica da cui la moneta trae origine, la sua indagine si manifesterebbe come puro fatto empirico perché, mancando il lui la consapevolezza dei principi, verrebbe meno la possibilità di elaborare strumenti conoscitivi di dignità scientifica.
Occorre anche chiedersi cosa sia effettivamente l’economia, occorre valutare una sua radicale trasformazione semantica, passando dalla sua odierna accezione formale, la massimizzazione/minimizzazione dei prodotti/mezzi, a quella sostanziale, il rapporto istituzionalizzato fra l’uomo e la natura.
Personalmente dopo aver letto varie cose di Alvi mi sembra in linea con il suo modo, originale, di vedere l'economia. E' abbastanza lungo, ma molto interessante.
C'era una volta l'Economia
(di Geminello Alvi)
Con audacia si è ricollegata la nascita della moderna economia all’evoluzione della matematica che, da sintetica, come sviluppata dai greci, si trasforma, grazie a Cartesio, a Newton e a Leibniz, in analitica, dirigendosi verso lo studio locale delle curve. è l’inizio del capitalismo. Scienza newtoniana e capitalismo sono impensabili separati perché ambedue richiedono un pensiero privo di levità, densificatosi nella costruzione di artifici. Non importa al calcolo mercantile la percezione della vita nella natura, ma piuttosto la sua meccanizzazione. Il profitto personale, nella filosofia di Adam Smith, va a costituire la natura umana, pertanto il corso della storia economica viene rimodellato su questo pregiudizio, nonostante che ricerche etnologiche e antropologiche indicassero il contrario, ponendo invece in risalto la natura sociale, collettivistica e altruistica dell’organizzazione della vita dell’uomo.
Invece Adam Smith, mistificando il passato, mette un’ipoteca sul futuro; perché, come avviene con lo iettatore di Pirandello, l’uomo e la società si dovranno adeguare a quella perversa filosofia. L’entrata in campo della moderna economia è accompagnata da nuovi concetti, e anche dalla trasformazione di vecchi termini: i bisogni dell’uomo, la scarsità, il lavoro, il mercato, lo scambio, il capitale, i mezzi scarsi, i mezzi di produzione, la libera concorrenza. Parole e locuzioni apparentemente neutre, ma che pervertiranno la mente e il pensiero. Ne riparleremo alla fine di questa grottesca favola.
La rivoluzione industriale e l’organizzazione capitalistica inondano la società di merci, di prodotti in serie; la società, sommersa dalla produzione materiale, non riesce piu` a relazionarsi e a dialogare con lo spazio e il territorio, inizia quindi la graduale scomparsa dell’architettura e dell’urbanistica, del paesaggio urbano e rurale. Strade e piazze, case e palazzi vengono sacrificati alla misura e alla quantificazione delle aree e delle cubature. Non sarà più possibile, per una nazione e per un popolo, concepire e realizzare progetti che lasceranno un’impronta nel territorio, duraturi nel tempo; come le città imperiali romane, il romanico dei comuni, il rinascimento delle signorie, il barocco dei papi. Nuovi e amorfi materiali da costruzione vengono depositati e spalmati, a formare una crosta di cemento e asfalto che caratterizza il territorio urbano moderno. Oggi l’architettura e l'urbanistica sono diventati sterili esercizi stilistici, degli assolo del designer attore senza più rapporto con l’ambiente, il territorio, la cultura e l’arte. Con la morte dell’architettura, cioè sin dalla rivoluzione industriale - anche l’arte, la letteratura e la scienza hanno soltanto il compito di servire come una pelle artificiale di aspetto giovanile, che contribuisce a tenere saldamente insieme lo scheletro, in dissoluzione, del tempo.
Nasce, con il capitalismo, il concetto della creazione artistica, nasce quel personaggio avulso dall’ambiente in cui vive, una sorta di alterità in una società dedita alla produzione materiale. In altre epoche, invece, il fatto di dipingere, di scolpire, di suonare era connaturato e consustanziale al proprio ambiente, pertanto non ci si curava di firmare le proprie opere. Federico Zeri, giustamente, si rammaricherà di avere indugiato nell’esercizio dell’attribuzionismo seguendo gli insegnamenti del positivista Giovanni Morelli, invece di porre l’attenzione allo studio delle condizioni in cui le opere venivano prodotte.
Comunque Adam Smith vive un’epoca di ottimismo, la sua filosofia celebra il progresso e la ricchezza ormai alla portata di tutti; per converso la storia celebra l’opera e l’autore, che entrano così nel mito. Sembra che nulla possa ostacolare le sorti progressiste della nuova società. E invece no, la società della disperazione è dietro l’angolo: l’ambiente contadino, con la sua frugalità e umanità, presto si trasforma in quel paesaggio della prima industrializzazione inglese, che molti romanzieri dipingono come un abisso di abiezione: con l’abbrutimento della persona e dell’ambiente, coi lavoratori sfruttati e violentati, coi bambini in miniera, con la miseria senza speranza.
Si assiste, per la prima volta nella storia, anche a una stridente contraddizione: una produzione di beni materiali senza precedenti per quantità, e una condizione umana sotto la sussistenza. Si pensa però che questa debba essere la condizione umana da sempre. E così, sempre nell’Inghilterra povera di storia, un ecclesiastico, il reverendo Robert Malthus, sentendosi chiamato a spiegare lo stato delle cose, dà inizio alla filosofia della disperazione. Egli giustifica candidamente lo status quo in quanto è necessario che gli uomini restino nella miseria, perché è la condizione e lo sprone affinché essi siano costretti a lavorare. Non bisogna dare loro niente oltre lo stretto necessario, perché essi per natura sono incapaci di gestire il di più.
Non a tutti piace la spiegazione. Non piace agli utopisti: Proudhon, Fourier, Owen; la spiegazione non piace soprattutto a un ricco borghese, Karl Marx, che denuncia un fatto ovvio: che il ricco più ricco ruba al povero più povero, e lo deruba attraverso l’appropriazione di una quota parte del suo lavoro, il plus valore, che va a costituire i mezzi di produzione, il cosiddetto capitale, dei datori di lavoro. Marx fa anche notare che, nel processo di appropriazione, c’è il rischio di giungere al fondo della pentola, quando non ci sarà più niente da rubare: il lavoratore, che ha prodotto il capitale di cui necessita il padrone per costituire il sistema produttivo, non serve più perché verrà sostituito da questo; si verificherà quindi quel fenomeno che i tecnici definiscono come «la riduzione tendenziale del saggio di profitto»: il fuoco, bruciando, esaurisce il proprio combustibile.
Marx predice allora la crisi del capitalismo, e dalla polvere della sua rovinosa caduta sorgerà il sol dell’avvenire, il comunismo. Come il suo antagonista virtuale, Adam Smith, anche Marx, quando divide la società in classi in lotta fra loro, effettua una forzatura e una distorsione della storia e della società a proprio uso e mal uso. Introduce il sentimento dell’odio di classe; un odio spesso consumato all’interno della propria classe, dalla spocchia del ceto intellettuale nei confronti degli operai che si sente chiamato a difendere. Notevole e affascinante è l’analisi di Marx riguardo ai connotati che gli oggetti assumono nel mondo capitalistico: non più aventi valore di uso, bensì ridotti a valore di scambio. è la cosiddetta reificazione: qualsiasi cosa viene ad assumere un carattere materiale con un prezzo.
Da qui si eleva un formidabile edificio sociologico, pari all’altro che più tardi Sigmund Freud erigerà sulla psiche e sull’inconscio. Al contrario di Marx, che interpreta la crisi della società in quanto determinata da forze esterne al singolo, Freud si concentra sui conflitti dell’uomo con se stesso. Ancora oggi vi sono circoli dove intellettuali di rara raffinatezza combinano l’analisi marxiana con quella freudiana, e hanno la pretesa di spiegare la struttura del mondo e dell’uomo a tutti gli uomini e al mondo intero. Possono realmente apprezzare il genio di Marx e di Freud soltanto coloro che vedono con quanta precocità essi definiscono le regole del dramma moderno. Sono loro che forgiano i concetti definitivi che sarebbero serviti a definire e a orchestrare il nuovo tipo d’attore, «l’uomo» industrializzato.
Il lavoro salariato apporta un nuovo tipo di sofferenza che distrugge sia gli uomini sia le donne. Tutti i lavoratori retribuiti sono vittime della stessa epidemia di disorientamento, solitudine e dipendenza. Questi sentimenti generano interpreti politici e l’élite di una nuova classe. La diagnosi dell’afflizione universale diviene l’arena della carriera di nuovi professionisti - educatori, medici e altri ingegneri sociali - che prosperano producendo programmi, orientamenti e terapie.
Per certi versi l’analisi di Marx è incontrovertibile, senza vie di uscita, mette perciò in allarme le istituzioni minacciate da scioperi e rivolte popolari. Ma come in un appuntamento con la Storia, dalle nazioni più importanti, come i tre re magi, Menger, Walras e Jevons accorrono al capezzale del capitale e cercano di arginare le forze sociali e intellettuali che il marxismo aveva messo in campo.
Con una mossa del cavallo vengono scombinate le carte in tavola e scambiati gli attori della favola: non vi sono più i capitalisti e i proletari, i padroni e i lavoratori, i ricchi e i poveri; bensì, alternativamente, in diversi momenti della nostra vita, siamo tutti produttori e tutti consumatori, tutti venditori e tutti compratori. Anche il più sfortunato, si fa osservare, può vendere il proprio lavoro e contrattarne - incredibile - il prezzo.
Siamo tutti soggetti, nei nostri atti di vendita e di acquisto, alle leggi della domanda e dell’offerta che, in un mercato perfetto, non possono essere modificate dal singolo attore. Finalmente! L’economia ha raggiunto il suo obiettivo: la scoperta delle sue leggi naturali, l’estromissione dell’uomo dalla scena dei fatti economici per far posto alle curve che descrivono i meccanismi della domanda e dell’offerta, per far posto a un formidabile apparato matematico che mette in relazione le forze del mercato per realizzare le condizioni di equilibrio: una situazione che si raggiunge quando si compra tutta la quantità desiderata al prezzo desiderato; e quando, contemporaneamente, si vende tutta la quantità desiderata al prezzo desiderato. Marginalismo o economia neoclassica è il nome dato alla nuova teoria.
Occorre a questo punto seguire gli sviluppi di una favola parallela, la finanza. Lo scambio di merci, a differenza di come oggi lo intendiamo, in altre epoche rivestiva un aspetto marginale nella vita della società. La rivoluzione industriale, la riduzione dell’uomo alla dimensione economica, l’atomizzazione dell’attività produttiva, l’esplosione della produzione industriale di merci, l’affermarsi della mentalità di mercato, con il conseguente febbrile scambio di merci, sono fenomeni nuovi, di notevole intensità ed estensione. Si impone pertanto una riflessione circa la natura e il significato del mezzo di pagamento, la moneta. Si è già accennato al lavoro come merce di scambio; con maggiore perplessità si può parlare della terra e delle risorse naturali come merce di scambio; anche se, volendo essere coerenti fino in fondo, si dovrebbe parlare anche dell’aria come risorsa naturale e quindi come merce di scambio; allora una persona si potrebbe trovare nella situazione di non poter respirare per mancanza di potere di acquisto.
Quando poi si parla della moneta come merce si scivola in un discorso ambiguo, perché ci si accorge subito che essa può assumere la caratteristica opposta, quella di segno. Un’ambiguità simile a quella dei fisici quando parlano della natura della luce, instancabile viaggiatrice, ora onda nell’universo pieno, ora proiettile nell’universo vuoto. (In questo eccesso di visualizzazioni che mutuamente si escludono, anche i rilievi sperimentali falliscono, e lasciano il campo alle eccessive formalizzazioni einsteiniane, che nascondono le difficoltà dietro antiintuitive relazioni di trasformazione).
La moneta merce, quale l’oro, l’argento o il tabacco, presenta una rigidità dovuta alla sua base materiale difficilmente controllabile o modificabile; al contrario, la moneta segno è flessibile perché basta un provvedimento governativo per stampare e creare nuova moneta. Comunque, fino a una certa epoca, la moneta c’era, come la luce, e non ci si faceva troppe domande sulla sua natura; tutt’al più capitavano degli inconvenienti come in Francia con John Law e con gli assignats. La celebre relazione quantitativa, come la celebre legge di Gresham per cui «la moneta cattiva scaccia la buona», doveva essere sottotraccia nella mente di molti, molto prima che il filosofo David Hume e l’economista Irving Fisher la esplicitassero nella formula: MV=PQ; una relazione di stato come quella termodinamica che collega la pressione, il volume e la temperatura di un gas: PV = RT. Nulla ci dicono, queste relazioni, circa le modalità del raggiungimento di un particolare stato; per cui, se per le leggi della termodinamica si può indifferentemente affermare che: «un fluido compresso si riscalda» e «un fluido riscaldato si espande», similmente, per le leggi della circolazione monetaria, si può indifferentemente affermare che: «un aumento della massa monetaria provoca inflazione» e «l’economia ristagna se la moneta non circola» (trappola della liquidità).
Alla moneta segno e alla moneta merce se ne aggiunge una terza, il credito bancario, un tipo di moneta che alla flessibilità unisce la discrezionalità e l’usura, ma che oggi costituisce la gran parte della massa monetaria. Quindi non sono solo le autorità centrali che possono creare moneta, ma anche le banche, che, sulla base dei versamenti in moneta effettuati, creano un credito pari a diverse volte l’ammontare dei depositi. (Gli storici fanno osservare che già nel tardo medioevo, con le lettere di cambio, erano state poste le basi del sistema bancario).
Vengono date delle regole che stabiliscono le relazioni fra la moneta segno e l’oro, la cosiddetta base aurea o gold standard - al fine di creare stabilità e flessibilità -, fra la moneta depositata nelle banche e il volume dei loro crediti, la riserva - per evitare la bancarotta. La necessità degli scambi fra divise di diversi paesi complica oltremodo la gestione della multiforme moneta. Ai governi, che devono far quadrare i bilanci, si presenta l’annosa questione: se accettare la devalutazione attraverso l’emissione di carta moneta, col rischio di perdere il controllo della situazione, come in Germania negli anni ’22-’23, o di forzare la deflazione, col rischio di una stagnazione economica, come nel ’29.
L’una o l’altra inevitabilmente favoriscono o penalizzano contrapposte categorie: gli imprenditori o i rentier. Il complicato artificio barocco che si viene a creare intorno alla moneta farà impazzire il maggiore poeta del ’900 [nota di SP: Ezra Pound], e, in tempi recenti, porterà all’indignazione un combattivo professore di diritto di Teramo [nota di SP: Giacinto Auriti], che denuncerà per truffa i vari governatori della Banca d’Italia. Si fa notare che anche gli altri termini della relazione quantitativa non hanno una sicura definizione. Le quantità di merci prodotte, Q, aumentano non solo per effetto del progresso tecnologico ma anche in seguito alla riorganizzazione della società: si pensi ai parcheggi e all’uso delle strade, all’acqua, al legnatico (equivalente dell’energia), allo smaltimento dei rifiuti, ieri gratuiti e oggi a pagamento. I risultati del monitoraggio del livello dei prezzi, P, è sempre oggetto di discussioni; o meglio, c’è sempre stato uno sconcio interesse a mascherare una notevole inflazione (ad esempio, nel calcolo dell’inflazione non viene mai considerato il costo delle case, come se fossero investimenti e non abitazioni).
Pure le abitudini di pagamento, che dovrebbero essere registrate da V, sono di difficile verifica. Pertanto, se già la relazione quantitativa fondamentale ha così fragili fondamenta, si ha il sospetto che gli arditi sviluppi matematici successivi possano ridursi a esercizi accademici e a spauracchi per allontanare una pacata riflessione e un controllo democratico.
La grande guerra determina le crisi valutarie degli anni ’20, il crollo della borsa nel ’29, la grande depressione e la concomitante nascita dei totalitarismi. Questi sconvolgimenti favoriscono anche una riflessione critica sulle venerate dottrine economiche. Spesso in economia la teoria segue la pratica; la necessità e il desiderio di un determinato corso mettono in azione gli studiosi, la nuova teoria diventa la ratifica dei desideri di determinate classi o gruppi di pressione. Quasi tutti i governi, dopo il ’29, con empiria e buon senso, abbandonano il gold standard, abbandonano il principio del laissez-faire ed entrano come attori principali nella gestione dell’economia; perché non ci va molto a capire che, se un largo strato della popolazione è senza lavoro e senza reddito, occorre che qualcuno glielo dia; e se l’impresa privata, per qualche increscioso e sconosciuto inceppamento dei suoi meccanismi, non ce la fa, occorre forzare dall’esterno, con l’intervento pubblico.
Qualche anno dopo John Maynard Keynes giustifica l’interventismo statale con una ponderosa opera di letteratura economica: Teoria Generale dell’Occupazione, dell’Interesse e della Moneta. L’economia controllata da un termostato? Il keynesismo che esplode in tutto il mondo tra gli anni ’20 e ’30, e che prende il nome di Fascismo, New Deal e Socialismo in un solo paese, è il tentativo di mettere il termostato all’economia, in modo che meccanismi di retroazione coscienti e non spontanei permettano di conservare lo specifico sistema produttivo capitalistico. Keynes dice esplicitamente che la sua proposta rappresenta la via di salvezza del capitalismo, il quale tende ormai a distruggersi da sé.
Alla fine della seconda guerra mondiale si stipulano gli accordi di Bretton Woods, dove si sancisce il ritorno al gold standard, un modo per mascherare il dollar standard, ovvero il signoraggio statunitense. Ma la Francia di De Gaulle accusa gli Stati Uniti di esportare inflazione; e insieme ad altri stati europei cominciano a risucchiare oro statunitense. Pertanto Nixon, con un’azione brutale, abolisce la convertibilità, dando così inizio all’epoca delle monete fluttuanti. Contemporaneamente agli accordi di Bretton Woods vengono istituiti il Fondo Monetarario Internazionale e la Banca Mondiale, più tardi il World Trade Organization: organismi super partes per regolare il mercato monetario e quello delle merci, e per favorire lo sviluppo e la ricostruzione dei paesi emergenti. Non si sa se per astuzia dei governanti occidentali o per l’eterogenesi dei fini, oggi quelle organizzazioni, con abili operazioni, riuniscono e controllano i capitali di tutto il mondo, ma sempre sotto gli auspici della democrazia e del liberalismo.
Il «costo del denaro» è forse oggi l’espressione più ambigua che circola nel mondo della finanza, un modo per dire che un prestito va restituito con interesse. Ma l’espressione è senza senso, e potrebbe suggerire la «fame del pane» o la «sete dell’acqua». Inoltre, quando mai, se si chiede in prestito una macchina o un attrezzo a un amico o a un conoscente, ci si sente in dovere di restituirgli qualcosa di più di quella macchina o di quell’attrezzo? Del resto, al contrario di quello che si pensa, il finanziamento delle imprese all’alba della rivoluzione industriale proveniva da individui, famiglie, amici, vicini, in modo assai poco formale. Anche l’analisi della parola Banca dovrebbe far riflettere. Banca era un termine per indicare un luogo di deposito per tenere al sicuro la moneta che in epoche passate era ingombrante e di difficile gestione. Ma oggi quella necessità non sussiste, tanto più che l’avvento dell’informatizzazione sta portando alla scomparsa della banconota e dell’assegno, gli ultimi residuati fisici della moneta.
Le persone a modo, altrimenti dette liberali, rispondono sostenendo che oggi la banca, anche se ha cambiato natura, grazie al credito e ai propri strumenti di analisi finanziaria, trasforma il risparmio raccolto in un volano economico, favorendo un armonico sviluppo della libera impresa - ed è proprio l’armonia e la libertà ciò che oggi mancano. In alternativa e in parallelo alle banche si è sviluppato il mercato azionario e obbligazionario: strumenti ancora più ambigui di finanziamento delle imprese, quindi, indirettamente, di creazione di moneta. Il risparmiatore acquista – per così dire – parti di un’azienda, le cosiddette azioni, o presta – per così dire – soldi a un’azienda, le cosiddette obbligazioni; le une e le altre sono in balia dei capricci del mercato finanziario, delle sue fluttuazioni, dei giochi speculativi; tanto che, senza mistero e senza vergogna, le operazioni di borsa vengono anche chiamate «giochi di borsa» e gli sprovveduti risparmiatori vengono additati come «parco buoi». L’interesse bancario e i corsi azionari, mediamente in rialzo nel tempo, trovano poi, purtroppo, un triste contrappeso in una fasulla o disordinata crescita, e in una cripto – ma neanche tanto - inflazione.
Ma è ora di riprendere il filo della favola principale e portarla a conclusione. Verso la fine dell’800 si pensa che il mercato debba svolgere per l’economia quello che l’agorà greca aveva svolto per la vita politica e sociale. Una copiosa letteratura fiorisce intorno al mercato, il principe, o il principio, dell’economia. Ma già un tarlo mina la poderosa impalcatura ideologica che lo sorregge. è abbastanza semplice osservare che una situazione iniziale di effettivo mercato concorrenziale, che si viene a creare con la nascita di un nuovo prodotto, tende a trasformarsi in monopolio od oligopolio, perché l’industria o l’impresa, per diventare più competitiva, deve cercare di allargarsi per meglio ripartire le spese fisse e i costi di gestione; e nel processo di competizione e di espansione assorbirà ed eliminerà via via i propri concorrenti. In un certo senso il mercato concorrenziale è autocontradittorio, perché tende a distruggere sé stesso - come il turismo.
L’inconsistenza del marginalismo, il supporto teorico al libero mercato, del mercato autoregolato, viene definitivamente resa pubblica da un riservato professore piemontese, Piero Sraffa, che in poche pagine, senza una formula, ma con un linguaggio asciutto ed essenziale, ne dimostrerà dall’interno la fallacia delle premesse e delle conclusioni. (Qualche anno dopo un angelo dell’economia dimostrerà che il mercato autoregolato non è mai esistito nella storia, che è un fenomeno assolutamente nuovo, improvviso. Oggi vi sono tutte le prove per affermare che l’idea di un mercato autoregolato implica una grossa utopia che distruggerà l’uomo fisicamente e trasformerà il suo ambiente in un deserto). Produzioni di Merci a Mezzo di Merci è l’unico libro di Sraffa. Lì si dimostra che per ogni particolare distribuzione del reddito tra salari e profitti esiste un corrispondente insieme di prezzi relativi. Di conseguenza, non si può dire che un insieme di questi prezzi relativi sia migliore di un altro, perché sono tutti strumentali alla distribuzione del reddito, l’unica cosa che può diventare migliore o peggiore.
Sfortunatamente la lezione di Sraffa viene poi tradotta in sindacalese con «il salario quale variabile indipendente». Le politiche interventiste, ispirate alle teorie keynesiane, e la presa di distanza dai ciechi meccanismi del mercato saranno comuni, nel dopoguerra, alle economie dei paesi occidentali, saranno anche provvidenziali per le nazioni distrutte dall’ultimo conflitto mondiale. Grazie a queste politiche è stato possibile quel progresso, secondo i parametri economicisti, di cui le nazioni occidentali hanno goduto dal dopoguerra e per 25 anni ininterrottamente. Poi, all’inizio degli anni ’70, si assiste a un fenomeno inflattivo a due cifre, determinato dalle rivendicazioni salariali e dall’impennata dei prezzi del petrolio, che interessa tutte le economie occidentali. I restauratori e i controriformisti non aspettavano altro. Servendosi di un armamentario di idee regressive, a gran voce accusano gli stati scialacquatori e invocano il primato dell’impresa privata, della libera iniziativa. Si risponde alle difficoltà di una vecchia politica economica, nata quarant’anni prima, con una politica che, quarant’anni prima, era già vecchia. Alcuni economisti si prestano al gioco del tiro al piccione-stato. Uno di questi, Milton Friedman, l’economista stupido, rispolvera la vecchia equazione quantitativa; poi, confondendo la correlazione con la causalità, stabilisce, per via osservativa, la costanza della velocità di circolazione, V. Quindi gli viene molto semplice, avendo eliminata un’incognita, addossare la responsabilità dell’inflazione alle autorità statali che, per finanziare le proprie economie spendaccione, aumentano la massa monetaria.
Nicholas Kaldor gli fa però notare che la creazione di moneta, in un’economia creditizia, è endogena e non esogena – inutilmente. Due bifolchi della politica, Margaret Thatcher e Ronald Reagan, da un capo all’altro dell’oceano, adottano i suggerimenti di Friedman, mettendo così a soqquadro le proprie monete e le proprie economie nazionali. La debolezza intellettuale di Friedman è comunque oggetto di molti sarcasmi. In suo soccorso arrivano però gli economisti troppo intelligenti: Barro, Lucas, Sargent, Wallace, i virtuosi della matematica, da loro usata per dimostrare che, per quanto riguarda le politiche economiche, vale il detto: «chi non fa non falla», cioè che stati e governi si devono guardare dal cercare di influire in qualche modo sui processi economici, perché questi posseggono una razionalità interna, ben conosciuta dai singoli individui ed operatori. Questi hanno delle aspettative razionali ben conosciute, e neutralizzeranno qualsiasi intervento inteso a modificare la direzione e il corso naturale delle vicende economiche.
Una posizione-situazione, questa, che si ispira al detto: «fatta la legge trovato l’inganno». La politica del non intervento, suffragata da tanto ingegno, fa molto comodo al pesce grosso; ed è quella che di fatto è oggi adottata dai politici di destra, di sinistra, di tutti i colori e di tutte le ideologie. È successo l’impensabile. Cose che si ritenevano ragionevolmente acquisite, il pensiero di Sraffa, Keynes, Kaldor, eccetera, non è già discusso o confutato, ma semplicemente passato sotto silenzio o dimenticato, mentre invenzioni ingenue e inverosimili, come l’economia dell’offerta o il monetarismo, vengono alla ribalta. Parimenti, i cantori del neoliberismo presentano le loro aberrazioni come evidenze del buon senso, quando la libertà assoluta dei movimenti del capitale rovina settori interi della produzione di quasi tutti i Paesi e l’economia mondiale si trasforma in un casinò planetario.
È rinato il mito del mercato, in forma ancora più radicale, pertanto più ideologica; si arriva anche a pubblicare libri dal titolo: Privatizziamo il Chiaro di Luna - forse per metterlo in concorrenza con la luce del sole; spregiudicatamente si offre al mercato, cioè ai padroni ladroni, la proprietà delle autostrade, della rete idrica, elettrica, ferroviaria. Si pretende cioè di mettere in un mercato concorrenziale attività per loro natura esclusive.
Ovviamente i guadagni stratosferici dei gestori della sala mungitura dei servizi di pubblica utilità sono un formidabile olio persuasivo nei confronti dei politici di ogni colore e fazione; giornalisti, professori, tecnici, storici fanno a gara ad esaltare la nuova scoperta dell’economia moderna, il mercato.
Ovviamente non mancano gli ingenui e gli utili idioti: gruppi e circoli che, con l’ostinazione dei nuovi arrivati o dei convertiti dell’ultima ora, recitano le formule di rito: «meno stato e più mercato», «la classe dei produttori contro quella dei burocrati». Anche le persone più leali, serie e d'antica prova si sono convinte della bontà del mercato. Ahi che è fatto - con intenti criminosi, all'opposto d'ogni lealtà - dalle multinazionali. I ricchi più ricchi hanno intuito: le produzioni massive messe in opera da una manovalanza sottopagata, daranno loro un potere assoluto. E lo hanno realizzato con una spietata e inesorabile consecuzione a partire dai paesi più poveri, per semplificare ed esemplificare, dallo Zambia all'Argentina. Vi sono stati processi politici per massacri bellici, concepiti e realizzati; ora chiediamo processi per crimini che hanno portato e portano alla fame, alla disperazione e alla morte, vittime ancora più numerose. Contro i ricchi più ricchi che hanno sradicato le colture e la cultura, ovunque non gli sono state contrapposte l'indisciplina, la refrattarietà e la ribellione.
Miliardi di ettari di terra ora incapaci di soddisfare le loro popolazioni, proprio per la cancellazione di ciò che era stato prodotto e li aveva alimentati per secoli. Aggiungi che «ragioni» politiche e religiose hanno indotto ad una moltiplicazione anche criminale della crescita demografica. Oggi abbiamo ovunque nel mondo una agricoltura transgenica mostruosa con rese sempre più alte e qualità peggiori, per confezionare bevande e cibi da imporre coi mezzi più ingannevoli, quale la pubblicità, i più orridi, quale la guerra, a popolazioni che si sono trovate nello stesso momento prive del nutrimento abituale e avvelenate dalle farine, dalle coca cole e dagli hamburger altrui.
L’integerrimo economista, Federico Caffè, piuttosto che assistere inerme all’impazzimento generale preferisce togliere il disturbo: letteralmente scompare; John Kenneth Galbraith, il decano degli economisti americani, invece, si rifugia nel sarcasmo e nei ricordi. E siamo arrivati alla fine della favola, e si spera di non arrivare alla fine della nostra civiltà, perché ci sono i segni di una catastrofe imminente. Dopo avere spazzato via l’architettura e l’urbanistica, il mercato oggi vuole depredare la Terra stessa, con l’inquinamento dell’aria e delle acque, con le devastazioni del territorio, il sovvertimento climatico e l’esplosione demografica. Il sistema industriale è lasciato andare alla deriva.
Si pensi che la quasi totalità delle materie prime e dell’energia poggia su una sola risorsa, il petrolio, per giunta in via di esaurimento e concentrato in poche regioni politicamente molto instabili. La rapina comunque interessa tutto l’ecosistema, dalle foreste secolari ai fondali marini. L’uomo economico non si preoccupa più del suo ambiente, anzi è come un bambino che, trovandosi in casa con i muri di cioccolata, si è messo a mangiarli, senza capire che presto il resto della casa gli cadrà sulla testa. Tutto questo in nome di uno sviluppismo economicistico che conduce alla disperazione, di conseguenza conduce anche a un pericoloso rigurgito di fondamentalismo religioso, islamico e cattolico.
Forse questa favola poteva seguire un altro corso. Se i nostri economisti avessero riflettuto maggiormente sulle parole e sul loro uso avrebbero risparmiato all’umanità tragedie a non finire. Quello che è successo da più di duemila anni nella filosofia, si sta ripetendo da più di duecento anni nell’economia: l’uomo sta ingannando se stesso e il proprio pensiero. I sacri testi, nelle prime pagine, spiegano che l’economia è la scienza che studia l’allocazione dei mezzi o risorse scarse per massimizzare la soddisfazione dei bisogni crescenti; cioè l’economia come un problema di ottimizzazione, di min-max.
Si può far notare che un italiano in buona salute soddisfa i suoi bisogni tutti giorni. Fisiologia a parte - è comunque ridicolo parlare, come fanno i testi, di bisogni insoddisfatti o sempre crescenti nel mondo occidentale, quando oggi metà della popolazione cerca strenuamente di vendere qualcosa all’altra metà recalcitrante; spesso usando mezzi illeciti o imbecilli, come la pubblicità. È assurdo parlare di bisogni insoddisfatti quando oggi la tecnologia ci mette a disposizione migliaia di opere musicali e letterarie, racchiuse in astucci di microelettronica, e a un costo irrisorio.
Pertanto, la sfida di Amleto: «Posso essere racchiuso in un guscio di noce e sentirmi sovrano dello spazio infinito» oggi è purtroppo ribaltata in un sentimento di nullità: «Ho il mondo racchiuso in un guscio di noce e non ho il potere su niente». Un’altra assurdità economicistica proviene dall’analisi marxiana, eredita da Adam Smith, del lavoro come merce. Perché gli economisti, quando trattano il lavoro come merce, trasferiscono un proprio modello, limitatamente valido, a tutte le attività umane. Mentre il lavoro è un modo di esplicarsi della persona, un modo per manifestarsi, per costituire il proprio essere. Difatti, cosa sarebbe Mozart senza la sua musica? e Raffaello senza i suoi dipinti? Avrebbero prodotto di più o di meno se avessero ricevuto in vita l’attuale valore monetario delle loro opere?
Considerazioni analoghe si possono avanzare anche per i lavori più umili: l’agricoltore soddisfatto della bontà dei frutti che ha coltivato, il muratore soddisfatto della bellezza della casa che ha costruito. Scarsità. L’acqua come «merce scarsa» è l’epitome dell’aberrazione dell’economicismo odierno. L’acqua è quella che è. Una nazione o un popolo si deve adeguare alle disponibilità e alle situazioni presenti. L’eschimese, che vive sull’acqua, e i carovanieri del deserto non dicono che l’acqua è abbondante o scarsa. Essi organizzano la loro vita, la loro attività in relazione all’acqua che hanno a disposizione. Anche l’attrazione gravitazionale che ci tiene a terra è quella che è, e un ingegnere si farebbe ridere dietro se dicesse che è abbondante o scarsa. Ovviamente il concetto di scarsità fa molto comodo, e ci dovremmo aspettare di vedere commercializzata anche l’aria.
Gli è che le risorse sono scarse anche in virtù di un condizionamento culturale: si pensi all’oro e ai diamanti. Crescita e PIL. La crescita fisica di un individuo, la crescita di piante e di animali è un fenomeno transitorio nell’arco della loro vita. Oggi invece una regressione primaria porta a considerare la crescita economica o l’aumento del prodotto interno lordo, il PIL, come l’obiettivo economico primario; non ci si accorge che, sommersi dalle merci, come nel corpo sovralimentato, le funzioni vitali rallentano e si vive male. (Questa regressione primaria colpisce anche l’indagine cosmologica, attaccata in modo infantile al «grande botto» e alla consecutiva espansione dell’universo, nonostante che semplici osservazioni, oramai alla portata di cannocchiali amatoriali, smentiscano la teoria. Ma non si può abbandonare la riposante immagine di un universo che cresce). L’eccesso di materiale-merci derivanti dal forzato aumento del PIL trova sfogo nel sovraconsumo della classe burocratica pubblica e privata - altrimenti detta management.
Per giustificare la propria esistenza, la burocrazia avanza come una lava che trasporta cumuli di normative e controlli capricciosi, valanghe di divieti e obblighi assurdi. Dopo il passaggio della burocrazia amministrativa arriva quella medica che estende la medicalizzazione della vita, quando va bene; quando va male blocca semplici e gratuite terapie a favore di terapie costose e dannose; quando va malissimo inventa delle terribili malattie e conseguenti progetti per costosissime ricerche per combatterle.
Comunque le istituzioni più efficaci nel consumare PIL sono la scuola e il sistema pensionistico. Le strutture scolastiche sono ormai diventate immani parcheggi per studenti e lucrose fonti di reddito per gli insegnanti. Si è però obbligati a sostenere una specie di recita o di rito, dove un certo numero di nozioni deve fluire da una parte a un’ altra, senza la passione di chi deve insegnare e l’interesse di chi deve apprendere, e con frustrazione per entrambe le parti. È motivo di perplessità quando, per denunciare la finzione scolastica, si fa notare l’apprendimento più difficile per l’uomo, dal punto di vista fisico e intellettuale, camminare e parlare, avviene grazie esclusivamente alle cure parentali.
Se l’ingresso nel mondo del lavoro è ritardato, la sua uscita è anticipata, anche se, in un gioco delle parti, oggi sembra si voglia rimettere in discussione l’età della pensione. Ci sono ancora degli ingenui che discutono circa il significato economico del complesso militare industriale: se è solo un assorbitore di risorse, di PIL, oppure se può funzionare come moltiplicatore keynesiano. Ma si tratta di briciole: il keynesismo militare ha fatto la sua epoca, anche se il Pentagono ordina ancora giocattolini e gli States si impegnano in stupide guerre.
Una maggiore riflessione occorreva rivolgere alla moneta che è il sangue dell’economia. Non è possibile spiegarsi la struttura, la funzione e l’essenza stessa dello strumento monetario, senza muovere da considerazioni strettamente giuridiche. Come è noto, le definizioni oggi proposte della moneta sono riconducibili tutte alle due ipotesi di «valore creditizio» e «valore convenzionale». Poiché, sia il credito che la convenzione sono delle fattispecie giuridiche, è ovvio che sfugge al controllo scientifico dell’economista ogni possibilità di un’analisi approfondita della fattispecie.
Se a ciò si aggiunge che la moneta si manifesta in quella forma particolare per cui il simbolo viene considerato di «corso legale», ci si accorge che l’istituzionalità e la rilevanza giuridica che il simbolo monetario assume nei confronti della coscienza sociale fanno sì che il valore monetario si oggettivizzi come bene in virtù di un procedimento creativo che è esclusivamente giuridico. È solo in un secondo tempo che l’economista può prendere in considerazione questo bene e valutarlo come protagonista di grande rilievo nelle vicende economiche. Ove mai non accettasse come punto di partenza dell’indagine monetaria la fenomenica giuridica da cui la moneta trae origine, la sua indagine si manifesterebbe come puro fatto empirico perché, mancando il lui la consapevolezza dei principi, verrebbe meno la possibilità di elaborare strumenti conoscitivi di dignità scientifica.
Occorre anche chiedersi cosa sia effettivamente l’economia, occorre valutare una sua radicale trasformazione semantica, passando dalla sua odierna accezione formale, la massimizzazione/minimizzazione dei prodotti/mezzi, a quella sostanziale, il rapporto istituzionalizzato fra l’uomo e la natura.
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venerdì 9 dicembre 2011
Rileggendo Aldous Huxley.
Ci sono letture che andrebbero ripetute ad ogni nuova stagione della vita. L'ho pensato recentemente rileggendo Il mondo nuovo di Aldous Huxley e soprattutto rileggendo un'edizione del 1994 [1] che contiene anche Ritorno al mondo nuovo, il saggio che Huxley scrisse nel 1958, venticinque anni dopo la prima edizione del suo libro più famoso, che allora mi era passata sotto gli occhi del tutto inosservata.
Il Mondo Nuovo è, come immagino tutti sappiano, un romanzo di fantascienza ambientato nel 2540, anno 632-simo dell'era Ford. Forse non tutti ricordano che l'anno zero di quell'epoca fantastica è quindi il 1908 anno in cui viene lanciato il modello T della Ford. Anno cruciale in cui nasce la grande standardizzazione del capitalismo produttivo e consumista, e perciò omologante, che è la negazione dell'individualismo del capitalismo originario. Con il modello T della Ford, per noi sarà la FIAT 500, inizia la grande promessa del capitalismo, con l'universalizzazione del sogno americano, di portare tutti, attraverso il consumo di massa ad essere benestanti come le classi privilegiate. Ed è di questo processo di universalizzazione e appiattimento dell'uomo che Huxley parla nel suo saggio del 1958 con intuizioni che con l'occhio di oggi appaiono fulminanti.
Il confronto con la distopia orwelliana è inevitabile e benché precedente a 1984 (pubblicato nel 1948), Il Mondo Nuovo (1931) mostra di aver colto in anticipo il fatto che la società capitalista, dalle mostruosità tiranniche del XX secolo, muoveva verso un mondo nuovo in cui il benessere avrebbe sepolto la libertà e l'individualità sotto l'“immane raccolta di merci” e con la mercificazione di ogni rapporto sociale e personale, piuttosto che soffocarla con il dispotismo. Nel 1958 Huxley prende atto della natura profetica della sua intuizione del '31.
Sovrappopolazione e super-organizzazione, con la relativa e necessaria Etica Sociale, portano alla distruzione dell'io e dell'individualità esattamente come avviene programmaticamente e scientificamente nella società del mondo nuovo. Sono funzionali alla distruzione della libertà individuale in nome del bene comune, un bene comune che viene continuamente ridefinito dai bisogni continuamente ricreati del consumo, della crescita, della quantità a discapito della qualità.
L'intero saggio è una perorazione di democrazia e libertà, è un libro filo-occidentale ed europeista, in cui con forte capacità intuitiva si comprende il legame fra economia e ambiente. Intuizione certamente, ma si deve ricordare che AldousHuxley aveva, oltre alla laurea in letteratura, quella in Scienze Biologiche ed era il nipote del biologo Thomas Huxley, che era stato uno dei principali diffusori e sostenitori della Teoria dell'Evoluzione, tanto da essere soprannominato “il mastino di Darwin”.
“La produzione di massa non sta in piedi senza distribuzione di massa, e la distribuzione di massa crea problemi che solo i grandi produttori possono risolvere adeguatamente” [2]
In queste condizioni si crea quella concentrazione di ricchezza e potere che determina l'ascesa al potere delle élites dell'occidente industrializzato e democratico che sono la negazione dell'ideale democratico (e federalista) jeffersoniano, “di una società veramente libera, composta da una gerarchia di unità capaci di autogovernarsi.”
L'uniformità che scaturisce dalla massificazione ci riduce ad automi produttori-consumatori e quindi dei malati mentali, dei nevrotici, come rilevava ErichFromm, e come già definito nella concezione dei quattro tipi di alienazione in Marx ed Engels.
“Uniformità e libertà sono incompatibili. Uniformità e salute mentale sono anch'esse incompatibili … L'uomo non è fatto per esser automa, e se lo diventa, va distrutta la base della sua sanità mentale” e ancora: “Qualsiasi cultura che, nell'interesse dell'efficienza o in nome di un dogma religioso o politico, cerca di standardizzare l'individuo umano, commette un'offesa contro la natura biologica dell'uomo.”[3]
L'uomo è animale sociale, ma non solamente questo, la sua socialità si esprime al meglio nell'equilibrio dei numeri che permette un equilibrio di libertà individuale e doveri, cooperazione e competizione. Questo optimum, che è anche e forse soprattutto un optimum demografico, si colloca a metà strada fra l'orda primitiva e il mondo sovrappopolato dei miliardi di individui organizzati nelle società moderne costituite di grandi stati, o superstati come l'Unione Europea, ma anche l'Unione degli Stati Uniti d'America (che sta sempre più tradendo il federalismo jeffersoniano). Nel mondo umano l'organizzazione è indispensabile, ma un eccesso di organizzazione, oggi dopo Tainter[4] si parlerebbe di complessificazione dato che l'organizzazione è, di questa, parte integrante, “trasforma gli uomini in automi, soffoca lo spirito creativo, toglie ogni possibilità di liberazione. Come sempre, la via di mezzo è quella sicura: fra l'estremo laissez faire da una parte e il controllo totale dall'altra.” [5]
Biologicamente l'uomo è più vicino al lupo, all'elefante, ai cetacei che agli insetti sociali. Invece è proprio il formicaio e l'alveare che viene immediatamente in mente guardando i grandi assembramenti metropolitani. La crescita del numero è il viatico per l'irreggimentazione, coerentemente essa è gradita alle grandi ideologie politiche e religiose basate sull'Etica Sociale e contrarie all'individualismo. Ma è gradita anche per ragioni economiche a quelle élites che si sono costituite grazie alla concentrazione delle ricchezze nel processo di crescita e globalizzazione e che nelle democrazie di antica industrializzazione sostengono il proprio predominio, con l'uso della retorica della libertà.
La spinta alla magnificazione della fertilità, che è probabilmente geneticamente radicata (hardwired) nell'uomo, come in tutti gli organismi viventi, dall'evoluzione biologica che si è realizzata in presenza di fattori limitanti esterni abbastanza potenti tali da renderla necessaria, diventa Tabù della Sovrappopolazione di cui non si deve parlare.
Talvolta, nei consessi culturalmente più elevati questo Tabù si manifesta in modi perfino più sofisticati e perniciosi di quelli adottati, ad esempio negli ambienti religiosi della Chiesa Cattolica, ad esempio “dimostrando” che il problema demografico non è l'unica causa del degrado ambientale come dimostra la famosa formula IPAT. Tranne poi dedicarsi invariabilmente alle sole componenti A e T e mai a quella P nell'unico modo possibile: il controllo della fertilità.
In nome della giustizia sociale, fra generazioni, fra popoli tutti devono avere il diritto di esercitare a piacere la propria capacità riproduttiva, perché, dicono ad esempio i marxisti: il problema non è il numero, ma i rapporti di produzione, oppure, dicono i cattolici in sintonia con gli ecologisti, il problema non è il numero ma i consumi. Tutti uniti nel pauperismo utopico di una società di virtuosi. L'economia come scienza, mediocremente irrilevante più che triste, si preoccupa invece della sostenibilità dei trattamenti pensionistici fra un numero di anni per i quali nessuno è in grado di fare una previsione minimamente attendibile.
L'umanesimo di Huxley nota che insieme al crescere del numero e della superorganizzazione, ovvero del super-stato e delle super-corporation, si passa sempre più da uno scenario tipo “1984”, fatto di dittature riconoscibili, ad uno tipo “Mondo Nuovo” con un profondo condizionamento dell'uomo fin dalla più tenera età, ed un controllo del flusso di informazioni che non nega la libertà di pensiero ma la invischia nel miele del sistema dell'informazione- spettacolo- comunicazione dell'industria culturale che rende nevrotici ed alienati anche i suoi stessi attori. [6]
I grandi filantropi dei secoli scorsi che si sono battuti per l'alfabetizzazione universale e per la libera stampa “prospettavano solo due possibilità: la propaganda è vera o è falsa. Non previdero quello che di fatto è accaduto [parla Huxley nel 1958 NdA], soprattutto nelle nostre democrazie capitaliste occidentali: il sorgere di una grossa industria della comunicazione di massa che non dà al pubblico né il vero né il falso, ma semmai l'irreale, ciò che , più o meno, non significa nulla.” [7]
Il panem et circenses dei romani è nulla rispetto al flusso continuo di nulla mediatico a base di cronaca, sport, vacuità cinematografica, e narrativa. Tutto infallibilmente divenuto il marxiano oppio dei popoli che ha perduto però anche quel “singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito” [Karl Marx.Criticaalla filosofia hegeliana del diritto pubblico.] che nobilitava la religione giudicata dal Marx nel secolo XIX, per diventare pura e semplice felicità acrilica. Siamo esattamente al golf elettromagnetico, al cinema odoroso e al sesso tanto promiscuo e paritario quanto meccanico in cui la femmina desiderabile, la Lenina del Mondo Nuovo, è giudicata stupendamente pneumatica. Non ci vedete le labbra e le tette rifatte secondo l'ideale di femmina palestrata e androgina propagandato dalla lobby gay della moda contemporanea, che denunciava Luigi De Marchi? Modello che oltre ad essere in se disumano è fonte di alienazione sia per i modelli che per le donne che ne subiscono l'influsso, come testimonia la vera e propria epidemia di Anoressia fra le giovani donne.
L'insieme di questi risultati sono ottenuti attraverso il condizionamento della pubblicità e dell'applicazione della scienza allo studio del comportamento umano. Spero che qualcuno si ricordi lo splendido monologo teatrale di Gabriele Porrati durante il convegno ASPO-5 a Firenze, quando descrive l'organizzazione della distribuzione delle merci sugli scaffali in un grande supermercato. Quando spiegava la ragione per cui frutta e verdura vengono prima di ogni altra cosa. Anche io mi ero chiesto la ragione senza darmi una spiegazione. Pensavo che la scelta fosse sbagliata perché generalmente frutta e verdura sono tendenzialmente più fragili delle merci che si mettono successivamente nel carrello e rischiano di essere schiacciate e quindi sciupate. Nulla di tutto questo: frutta e verdura vengono messe prima di tutto il resto perché sono divenute (anche questo attraverso la persuasione occulta) sinonimo di cibi sani e perciò dopo aver preso quelli il consumatore inconsapevole è più disposto a comprare altro, anche le cose meno salubri perché si sente l'animo in pace.
I bambini da carne da cannone sono diventati carne da televisione, e di nuovo, anche per questo, ce ne vogliono molti, sempre di più, domani saranno contribuenti e consumatori acritici (ma c'è bisogno di aggiungere questo attributo?). Lo sono diventati grazie alle scoperte della propaganda nazista goebbelsiana applicate alla vendita delle merci.
Bella anche la parte del saggio di Huxley che tenta una risposta alla domanda: Che fare?
Huxley si rende conto che non è possibile affiancare all'habeas corpus della Magna Charta un habeas mentem che impedisca, a posteriori, il sequestro e l'abuso delle menti, ma pensa che sia ancora possibile rendere illegale l'uso delle tecniche di persuasione occulta. Sarebbe estremamente interessante sentire cosa pensano di una legislazione contraria alle tecniche di persuasione che sono alla base dell'intero mondo pubblicitario i paladini politici della libertà di oggi secondo i quali va sempre tutto bene (madama la Marchesa), finché non sei obbligato ad accendere la televisione. Cioè se non c'è coercizione fisica allora c'è libertà per definizione. Escamotage tecnico per trasformare un liberale in un Pangloss, in un conservatore del presente. Se ci deve essere anche la libertà di abusare delle menti inconsapevoli allora ci si chiede quale sia la differenza fra libertà e arbitrio.
Che fare contro il processo di crescita della popolazione e della superorganizzazione che trasformano la democrazia in un totalitarismo non violento in cui: “... tutti i vecchi slogan resteranno esattamente com'erano ai bei tempi andati. Radio e giornali continueranno a parlare di democrazia e di libertà, ma quelle due parole non avranno più senso. Intanto l'oligarchia al potere, con la sua addestratissima élite di soldati, poliziotti, fabbricanti del pensiero e manipolatori del cervello, manderà avanti lo spettacolo a suo piacere.”[8]
Per la popolazione è chiaro cosa propone Huxley: “ridurre il tasso di natalità a un punto che non superi il tasso di mortalità.” e ancora, “accrescere la produzione di generi alimentari, avviare e portare avanti una politica mondiale per la conservazione del suolo e delle foreste; creare surrogati opportuni ai nostri carburanti, se possibile meno pericolosi e meno esauribili dell'uranio; amministrare oculatamente i minerali disponibili, e intanto escogitare metodi nuovi e non troppo costosi per l'estrazione di questi minerali da fonti sempre meno pregiate, fino all'acqua di mare, che è la meno pregiata di tutte”.[9]
Traspare, in questo passo, una certa ingenuità e fede tecnologica che noi possiamo facilmente criticare trentacinque anni dopo Limits to Growth, ma per lui che veniva più di un decennio prima appare sorprendente la chiarezza del nesso che molti ancora oggi non hanno capito fra popolazione, economia e ambiente.
Per il controllo delle nascite Huxley si rende conto che ci troviamo di fronte “ad un problema difficilissimo, insieme fisiologico, farmacologico, sociologico, psicologico e persino teologico. La pillola non è stata ancora inventata. Quando e se la inventeranno si potrà distribuire alle centinaia di milioni di madri in potenza (o padri se agirà sui maschi) le quali dovranno ingerirla se vogliamo ridurre il tasso di natalità della nostra specie? E considerati i costumi sociali esistenti, considerate le forze d'inerzia culturale e psicologica, come potremo convincere a mutar parere gli individui che dovrebbero, ma non vogliono ingerire la pillola? E che dire delle obbiezioni della Chiesa Cattolica a qualsiasi forma di controllo che non sia il metodo basato sui giorni sterili?”[10]
C'è già tutto, dalle proposte ai problemi. Molti più problemi, allora, a distanza di mezzo secolo il cammino sulla strada della tecnologia dei metodi anticoncezionali apparirebbe miracoloso a Huxley che, come faccio io, si rallegrerebbe della bontà di molta scienza quando è veramente al servizio dell'uomo.
Sul piano dell'educazione Huxley ha già capito nel 1958 che i contadini delle nazioni dove maggiormente cresce la popolazione dovranno imparare a non “stremare la terra”.
Ma nella corsa fra risorse naturali e numero della popolazione il tempo è contro di noi .. e alla fine del secolo in mancanza di un efficace controllo della natalità la situazione alimentare sarà grave quanto oggi e considerevolmente peggiore sarà la situazione delle materie prime.
Huxley parla di noi e del nostro tempo, prova ad immaginarlo ed ha su di esso delle formidabili intuizioni. Le soluzioni per non arrivare al verificarsi di quelle condizioni non sono per lui chiarissime e sono certamente difficilissime da mettere in pratica. Noi oggi sappiamo che molti progressi tecnologici; dalla produzione di energia da fonti rinnovabili allo sviluppo di una molteplicità di metodi anticoncezionali, alle tecniche di coltura protettive del suolo, renderebbe meno grave la situazione che si è venuta creando nella seconda metà del secolo scorso e che inizia a precipitare in questo primo decennio del XXI secolo, e tuttavia troviamo tutte le inerzie e le resistenze di cui parlava Huxley, ingigantite dal lungo cammino di condizionamento che i popoli hanno subito nel frattempo e dalla presenza oppressiva di una oligarchia che ha nelle sue mani quelli che Huxley chiama: il Grande Governo e la Grande Impresa.
A spingermi a rileggere Il Mondo Nuovo è stato una citazione dal libro di Neil Postman "Amusing ourselves to death" che ho letto fra i commenti di un articolo di Nate Hagens del 2010 su The Oil Drum, citazione che riporto interamente (tradotta) perché chiarisce più di ogni altro discorso l'avverarsi della profezia di Huxley che diventa silenziosamente il nostro mondo di tutti i giorni, mentre per decenni ci siamo preoccupati del mondo orwelliano.
"Orwell temeva coloro che avrebbero vietato i libri. Huxley temeva che non ci sarebbe stato alcun motivo per vietare un libro, perché non ci sarebbe stato più nessuno che ne volesse leggere uno. Orwell temeva coloro che ci avrebbero privato delle informazioni. Huxley temeva coloro che ne avrebbero date così tante da ridurci ad uno stato di passività e di egoismo. Orwell temeva che la verità ci sarebbe stata nascosta. Huxley temeva che la verità sarebbe stata annegata in un mare di irrilevanza. Orwell temeva che saremmo diventati una cultura prigioniera. Huxley temeva che saremmo diventati una cultura banale [...]. Come ha osservato Huxley in Ritorno al Mondo Nuovo[1], i libertari e i razionalisti che sono sempre in allerta a contrastare la tirannia "hanno omesso di prendere in considerazione l'appetito quasi infinito dell'uomo per le distrazioni." In 1984 di Orwell le persone vengono controllate infliggendogli dolore. Nel Mondo Nuovo, vengono controllate infliggendogli piacere. In breve, Orwell temeva che ciò che temiamo ci rovinerà. Huxley temeva che ciò che desideriamo ci rovinerà." [11]
Note
[1] Le citazioni riportate fra virgolette in questo articolo sono prese dalla seguente edizione: Aldous Huxley. Il mondo nuovo. Ritorno al mondo nuovo. Classici Moderni Oscar Mondadori 1994.
[2] cfr [1] pag 251.
[3] cfr [1] pag 253.
[4] Joseph Tainter.
[5] cfr [1] pag 254
[6] Claudio Lolli. Autobiografia industriale. http://www.youtube.com/watch?v=Pu9hE0cVJPM
[7] cfr [1] pag 266.
[8] cfr [1] pag 333
[9] cfr [1] pag. 334
[10] cfr [1] pag 334
[11] Neil Postman. Amusing ourselves to death. http://en.wikipedia.org/wiki/Amusing_Ourselves_to_Death
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lunedì 5 dicembre 2011
Giù, verso il nono cerchio dell'Inferno.
Articolo di Ilargi pubblicato su The Automatic Earth il 2 dicembre 2011.
E 'molto semplice, ma forse è questo il problema. Per quanto ne so è solo troppo semplice perché la gente se ne renda conto.
C'è un gruppo di persone, ed è forte la tentazione di definirlo l'1%, ma non lo sono realmente, dal momento che ci sono dentro i politici, gli esperti dei media e gli economisti, che tutti insieme e a tutti i costi cercano di salvare il sistema finanziario esistente. Ad un costo che loro non sopportano: dato che il costo viene pagato dal 99%.
C'è un gruppo di persone, ed è forte la tentazione di definirlo l'1%, ma non lo sono realmente, dal momento che ci sono dentro i politici, gli esperti dei media e gli economisti, che tutti insieme e a tutti i costi cercano di salvare il sistema finanziario esistente. Ad un costo che loro non sopportano: dato che il costo viene pagato dal 99%.
Il loro è solo un punto di vista particolare, una particolare idea, di quello che serve per uscire dalla crisi in cui siamo niente di più e niente di meno che un'idea. Ma un'idea che prevale su qualsiasi alternativa in misura tale che, oggettivamente, non può non farci inorridire.
"Se non si salvano le banche e il sistema finanziario nel suo complesso, sarà l'Apocalisse". Questa è la linea prevalente ripetuta all'infinito.
"Se non si salvano le banche e il sistema finanziario nel suo complesso, sarà l'Apocalisse". Questa è la linea prevalente ripetuta all'infinito.
Tuttavia, se continuiamo a spendere migliaia di miliardi per evitare l'Apocalisse in arrivo, sicuramente la stiamo incoraggiando, per il solo fatto di fare esattamente ciò, e ad un certo punto busserà alla porta posteriore. Dopo tutto, non si può spendere sempre di più, e ancor meno da parte di alcuni, che non hanno neppure avuto il mandato per farlo.
Negli ultimi 5 anni ci sono state tutte queste missioni di soccorso. Somme di denaro mostruose dei contribuenti attuali e futuri sono state riversate nelle nostre economie in questo presunto tentativo di salvataggio.
Ora, fate un passo indietro e ditemi cosa vedete. Vi dirò quello che vedo io: un sistema finanziario che è in condizioni peggiori di quelli di 5 anni fa. Almeno la metà d'Europa è semplicemente in bancarotta, la maggior parte delle banche hanno perso fra il 50% el'80% del loro valore di mercato, Bank of America, destinatario di un importante salvataggio, sta rapidamente diventando un titolo spazzatura, la Cina vede regresso ovunque e sembra che il Giappone si stia avvicinando goffamente al patibolo.
Evidentemente, qualcosa non funziona come dovrebbe.
Ed ecco perché: sta diventando ogni giorno sempre più chiaro che salvare le banche non è la stessa cosa che salvare il popolo, su cui si scatena sempre di più l'austerità al fine di ... salvare le banche.
Ed ecco perché: sta diventando ogni giorno sempre più chiaro che salvare le banche non è la stessa cosa che salvare il popolo, su cui si scatena sempre di più l'austerità al fine di ... salvare le banche.
Dobbiamo fare una scelta: o si salvano le banche, oppure si salva le nostre società. Le quali sono già a pezzi, mentre parliamo, a causa dei costi di salvataggio di un sistema finanziario già profondamente in bancarotta.
Ma non abbiamo nemmeno iniziato a discutere questa scelta. Tutte le scelte e le decisioni sono prese per nostro conto in un teatro mono-dimensionale vuoto da parte di un piccolo gruppo di persone che nega categoricamente che tale scelta debba esser fatta o che perfino esista. Perché fare questa scelta non si adatta ai loro scopi alle loro carriere e alle fortune del loro ego.
Merkel, Blankfein, Sarkozy, Jamie Dimon, Obama, David Cameron, Mario Draghi e Timothy Geithner, (e Mario Monti NdT) sono tutti servi del sistema finanziario esistente, delle banche esistenti, che sono fallite ma cercano di nascondercelo. A nostre debilitanti spese.
Sì, sono stati in grado di evitare l'inevitabile fino ad ora. Ma questo è stato possibile solo perché hanno un accesso virtualmente illimitato ai vostri soldi, al portafoglio del 99%.
Dobbiamo crescere e prendere queste decisioni noi stessi, invece di lasciare che un gruppo di incravattati moralmente handicappati e con interessi molto consolidati continui a farlo per noi.
Ci stanno portando direttamente nel nono girone dell'inferno di Dante. E ultimamente ho sentito che non è assolutamente il luogo giusto per far crescere i vostri bambini.
(Trad. L.P.)
Ci stanno portando direttamente nel nono girone dell'inferno di Dante. E ultimamente ho sentito che non è assolutamente il luogo giusto per far crescere i vostri bambini.
(Trad. L.P.)
giovedì 1 dicembre 2011
La scoperta della miniera dell'acqua calda.
Come è noto, il risparmio energetico è uno dei tre obiettivi 20-20-20 indicati dalla Commissione Europea. La confindustria ha proposto, in un voluminoso documento un piano nazionale di risparmio energetico nel quale, in premessa, si afferma che gli investimenti saranno compensati da un risparmio in combustibili superiore a 100 miliardi annui. Nessuna stima dei costi totali viene data, anche perché il miglioramento dell'efficienza è un processo asintotico, ma si può presumere che essi saranno accettabili fino al limite superiore del risparmio previsto. Sulla base di questa “scoperta” dell'efficienza, ancora una volta gli Amici della Terra organizzano una conferenza nazionale sull'efficienza energetica, in collaborazione con Radicali Italiani e con parlamentari dell'area. Un'altra kermesse dei produttori di Fonti Rinnovabili non elettriche che sembrano diventate il nuovo cavallo di battaglia della sezione italiana di Friends of Earth, spesso in strumentale opposizione alle Rinnovabili Elettriche.
Ma numeri di questa grandezza inducono ad una riflessione più approfondita sul tema, anche perché è intuitivo che un miglioramento dell'esistente, a costi di tale dimensione, implica una rinuncia ad alternative diverse, tra la quali la transizione ad un mondo totalmente privo di fonti energetiche fossili. Tale alternativa radicale è stata in passato riassunta da noi di Rientrodolce nello slogan di “fine dell'era del fuoco”., che potrebbe essere una possibile versione italiana dello slogan delle post-carbon cities.
Ma numeri di questa grandezza inducono ad una riflessione più approfondita sul tema, anche perché è intuitivo che un miglioramento dell'esistente, a costi di tale dimensione, implica una rinuncia ad alternative diverse, tra la quali la transizione ad un mondo totalmente privo di fonti energetiche fossili. Tale alternativa radicale è stata in passato riassunta da noi di Rientrodolce nello slogan di “fine dell'era del fuoco”., che potrebbe essere una possibile versione italiana dello slogan delle post-carbon cities.
E' indubbio, e l'interesse di Confindustria potrebbe costituire un indizio, che l'insistenza sull'efficienza energetica rappresenta la continuità di un pensiero conservatore, tendente a non cambiare paradigma e a insistere a rabberciare l'esistente. Tale insistenza è coerente con il riflesso conservatore che si manifesta, ad esempio, nella resistenza a riconoscere nel riscaldamento globale un fenomeno di origine antropica o anche nel rifiuto di rivedere le astratte teorie economiche imperanti e il mito della crescita materiale (da cui conseguono grandi affari e falso progresso, come quelli connessi con TAV, inceneritori, rigassificatori, grattacieli, ferro, cemento e macchine ovunque, in un insostenibile processo di complessificazione).
"Efficienza energetica" significa continuare ad utilizzare le fonti fossili, dedicando enormi capitali per ottimizzarne l'uso, pur di non cambiare nulla della sostanza mentale che ci ha portati a questo punto.
"Efficienza energetica" significa dedicare risorse finanziarie e naturali sempre più scarse a prolungare l'esistente, sottraendo risorse all'affermazione delle energie rinnovabili e mettendo le basi per una caduta più rovinosa nel futuro.
L'efficienza energetica non richiede apposite politiche. Il sistema economico vigente già contiene al proprio interno la logica funzionale al raggiungimento delle riduzioni di costo, per semplici ragioni di mercato. Infatti l' efficienza è sempre stata promossa, in tutti i campi, ovviamente in proporzione all'utile marginale ricavabile: non per nulla l'intensità energetica per ogni punto di PIL è stata, almeno fino al 2005 (prima del picco del petrolio convenzionale), in diminuzione. Il criterio di massima utilità implica che si ottimizzino prima i processi energetici più dispersivi e meno costosi da modificare e poi, man mano, gli altri, secondo la legge dell'utilità marginale decrescente a fronte di costi crescenti. Se alcuni processi non sono ancora stati ottimizzati, ciò significa che l'utilità marginale ricavabile è minore e non si vedono motivi di intervento statale per rendere artificiosamente conveniente ciò che il mercato farebbe da sé o, se non lo fa, è perché lo considera svantaggioso.
Poiché l'efficienza energetica, così come concepita, all'interno della logica del sistema economico vigente, non tiene conto né del Life Cycle Assessment né dei costi delle esternalità, essa spesso si traduce in rottamazioni e grandi interventi energeticamente e ambientalmente controproducenti, che finiscono per accentuare l'azione dell'obsolescenza programmata, che è già, purtroppo, il motore dell'economia, della crescita e del consumismo che sono alla base della presente fase del capitalismo. Se almeno questi interventi non fossero mascherati di ecologismo, l'indignazione potrebbe forse essere minore.
L'efficienza energetica produce spesso effetti paradossali, come un maggior consumo di energia (sul paradosso di Jevons si è sviluppato un'interessante dibattito di cui potere trovare traccia qui, qui e qui). Ad esempio capita normalmente che si isoli meglio l'abitazione, ma poi ci si conceda qualche grado in più, che si compri una macchina che consuma meno per percorrere più chilometri o che si cambino le vecchie lampade a incandescenza con quelle a basso consumo per poi lasciarle accese anche quando non serve. Ciò indica che, in realtà, il fattore che incide di più nelle scelte di consumo è (ancora) il costo dell'energia, più che il risparmio energetico.
L'efficienza energetica in pratica si presenta come il deus ex machina dei conservatori che sulla base del mito del decoupling intendono letteralmente raschiare il fondo del barile in cerca degli ultimi profitti ottenibili dal modello fossile.
Il decoupling, letteralmente disaccoppiamento, invoca l'innovazione di processo e di prodotto in modo da ottenere lo stesso risultato economico,con un decrescente flusso materiale di energia e risorse. Il fatto che il decoupling sia un mito è stato dimostrato in varie sedi (si veda ad esempio Tim Jackson. Prosperità senza crescita). Qui si vuole solo rimarcare che, se pure tale disaccoppiamento ha funzionato in senso relativo, cioè, ad esempio, nella già citata riduzione dell'intensità energetica dei prodotti, esso ha totalmente fallito in senso assoluto, visto che le emissioni di CO2 (che, è bene ricordarlo, sono solo uno dei molti indicatori della pressione antropica) sono aumentate dell'80% dal 1970. D'altra parte tale fallimento non dovrebbe sorprendere, dato che il disaccoppiamento è essenzialmente determinato dall'applicazione di tecnologia e la tecnologia è, come ogni fattore di produzione, soggetta alla legge dei ritorni marginali decrescenti.
Sia chiaro non siamo contrari alle azioni che i cittadini hanno già iniziato a mettere in atto per proprio conto per difendersi dalla crescita delle bollette. Siamo contrari all'efficienza assunta a strategia generale sotto l'egida dello stato con il benevolo assenso di esperti e industriali.
Invece della costosa efficienza energetica di stato, se un provvedimento immediato, e a costo zero, fosse auspicabile, esso potrebbe essere l'introduzione (almeno a livello europeo) di una forte carbon tax, che, attraverso l'aumento del costo dell'energia, desse un contributo sia all'efficienza energetica che all'affermazione delle energie rinnovabili, senza necessità di una selva di incentivazioni burocratiche e dirigistiche, sulla via ipocrita dello "sviluppo sostenibile". Qualche effetto, anche se, purtroppo, assolutamente insufficiente, ne potrebbe anche conseguire sul contenimento delle emissioni dei gas climalteranti.
Nel fissare gli obiettivi dell'economia è necessario collocarli all'interno di un sistema più vasto, che ne riconosca il fine ultimo nel benessere spirituale e materiale dell'umanità, all'interno dell'ambiente che ne consente la vita. Se è vero che il pianeta è finito e che il metabolismo sociale ed economico umano sta portando alcune risorse essenziali verso un rapido esaurimento, è necessario che le residue risorse naturali ed economiche, ivi inclusi i ricavi di una eventuale carbon tax, siano diretti ad accelerare l'introduzione delle energie rinnovabili di massa, attraverso macchine (a energia solare ed eolica), già ampiamente conosciute e in costante perfezionamento, in grado di produrre grandi quantità di energia a costi ridotti e basso impatto.
Tale processo, sebbene, nel medio termine, risolutivo sul fronte energetico (esistono comunque fattori limitanti anche per la produzione di energia rinnovabile), non dovrebbe tuttavia essere considerato a se stante, ma essere visto come un intervento di mitigazione della transizione del pianeta verso uno stato stazionario che, inevitabilmente, potrà essere raggiunto solo nel lungo termine, governando le prevedibili catastrofi umanitarie che nel frattempo interverranno, a causa del ritardo con cui si interviene. Del resto economia ed energia, come anche disponibilità delle risorse naturali e popolazione, sono aspetti inestricabilmente interconnessi in un'unica realtà, come appare evidente a chi si sforzi di raggiungere una visione olistica del mondo e di includervi le leggi fisiche, come quelle della termodinamica e dell'ecologia.
Dai tempi in cui, grazie allo studio della dinamica dei sistemi, si iniziò a capire il legame fra ecosistemi terrestri ed economia sono passati, quasi invano, quaranta anni e le opere del Club di Roma e di altri autori come Paul Ehrlich con il suo libro “la Bomba Demografica”, e Ivan Illich con la sua ispirata critica agli eccessi del mercato capitalistico, che furono all'origine dell'ecologismo politico, sono state quasi dimenticatenell'orgia di una crescita che sembrava destinata a non interrompersi più.
Oggi è quanto mai necessario riprendere e approfondire il lavoro di questi antesignani che per tempo indicarono l'insieme di problemi in cui stiamo regolarmente inciampando senza peraltro essere in grado di dar loro il nome che hanno e cioè quello di crisi da overshoot ecologico della specie umana, guidata da due fattori essenziali: la dimensione dell'economia industriale e la dimensione della popolazione. Per questo motivo accanto ai menzionati interventi sull'energia, da considerarsi come una misura transitoria, è necessario che le scarse risorse naturali ed economiche residue siano utilizzate per avviare, immediatamente e con la massima energia, i processi a lungo termine necessari a instaurare una vera sostenibilità della vita sul pianeta, senza rinunciare totalmente agli aspetti positivi della modernità. Tali processi comprendono la riduzione della popolazione e dei consumi materiali globali, con il conseguente cambiamento degli attuali paradigmi economici e monetari, basati sull'indebitamento, ormai già in fase avanzata di auto-distruzione.
Nel fissare gli obiettivi dell'economia è necessario collocarli all'interno di un sistema più vasto, che ne riconosca il fine ultimo nel benessere spirituale e materiale dell'umanità, all'interno dell'ambiente che ne consente la vita. Se è vero che il pianeta è finito e che il metabolismo sociale ed economico umano sta portando alcune risorse essenziali verso un rapido esaurimento, è necessario che le residue risorse naturali ed economiche, ivi inclusi i ricavi di una eventuale carbon tax, siano diretti ad accelerare l'introduzione delle energie rinnovabili di massa, attraverso macchine (a energia solare ed eolica), già ampiamente conosciute e in costante perfezionamento, in grado di produrre grandi quantità di energia a costi ridotti e basso impatto.
Tale processo, sebbene, nel medio termine, risolutivo sul fronte energetico (esistono comunque fattori limitanti anche per la produzione di energia rinnovabile), non dovrebbe tuttavia essere considerato a se stante, ma essere visto come un intervento di mitigazione della transizione del pianeta verso uno stato stazionario che, inevitabilmente, potrà essere raggiunto solo nel lungo termine, governando le prevedibili catastrofi umanitarie che nel frattempo interverranno, a causa del ritardo con cui si interviene. Del resto economia ed energia, come anche disponibilità delle risorse naturali e popolazione, sono aspetti inestricabilmente interconnessi in un'unica realtà, come appare evidente a chi si sforzi di raggiungere una visione olistica del mondo e di includervi le leggi fisiche, come quelle della termodinamica e dell'ecologia.
Dai tempi in cui, grazie allo studio della dinamica dei sistemi, si iniziò a capire il legame fra ecosistemi terrestri ed economia sono passati, quasi invano, quaranta anni e le opere del Club di Roma e di altri autori come Paul Ehrlich con il suo libro “la Bomba Demografica”, e Ivan Illich con la sua ispirata critica agli eccessi del mercato capitalistico, che furono all'origine dell'ecologismo politico, sono state quasi dimenticatenell'orgia di una crescita che sembrava destinata a non interrompersi più.
Oggi è quanto mai necessario riprendere e approfondire il lavoro di questi antesignani che per tempo indicarono l'insieme di problemi in cui stiamo regolarmente inciampando senza peraltro essere in grado di dar loro il nome che hanno e cioè quello di crisi da overshoot ecologico della specie umana, guidata da due fattori essenziali: la dimensione dell'economia industriale e la dimensione della popolazione. Per questo motivo accanto ai menzionati interventi sull'energia, da considerarsi come una misura transitoria, è necessario che le scarse risorse naturali ed economiche residue siano utilizzate per avviare, immediatamente e con la massima energia, i processi a lungo termine necessari a instaurare una vera sostenibilità della vita sul pianeta, senza rinunciare totalmente agli aspetti positivi della modernità. Tali processi comprendono la riduzione della popolazione e dei consumi materiali globali, con il conseguente cambiamento degli attuali paradigmi economici e monetari, basati sull'indebitamento, ormai già in fase avanzata di auto-distruzione.
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