giovedì 15 dicembre 2011

C'era una volta l'Economia.

Riprendo questo articolo attribuito a Geminello Alvi ma rintracciabile in rete solo sul sito signoraggio.com.
Personalmente dopo aver letto varie cose di Alvi mi sembra in linea con il suo modo, originale, di vedere l'economia. E' abbastanza lungo, ma molto interessante.


C'era una volta l'Economia

(di Geminello Alvi)
La favola della moderna economia ha inizio nel 1776, quando Adam Smith, filosofo ed economista scozzese, dà alle stampe il libro: La Ricchezza delle Nazioni. Egli osserva che, per favorire il progresso materiale della società, è possibile ed è necessario rovesciare l’esortazione cristiana, cioè l’invito ad abbandonare i propri beni per darli ai poveri, e perseguire invece il profitto personale; perché l’impegno dei singoli individui ad arricchirsi e a migliorare le proprie condizioni materiali si tradurrà, grazie a quel potente mito della «mano invisibile», anche in un vantaggio collettivo. In un’epoca che vede l’ingresso delle macchine e dei primi automatismi produttivi, Adam Smith si interessa anche dell’organizzazione del lavoro. La manualità, la forza fisica, l’abilità, l’intelligenza organica vengono messe in ombra dalla potenza della macchina a vapore, dalla inesorabile precisione e dall’infaticabile movimento dei congegni meccanici ad essa collegati. Il lavoro dell’uomo entra in simbiosi con quello della macchina, pertanto si meccanizza e si macchinizza: la sua attività viene scomposta in tante operazioni, ciascuna delle quali assegnata a differenti individui. è il principio della separazione del lavoro, che porterà più tardi al taylorismo, al fordismo o alla catena di montaggio. In altri termini si può dire che per rendere più produttivo un lavoro stupido occorre renderlo ancora più stupido. A un più alto livello dell’organizzazione industriale, amministrativa e governativa, la separazione del lavoro prende il nome di specializzazione tecnica, di separazione delle competenze; oggi degenerate nelle burocrazie statali e in quelle private - altrimenti dette management; dove, spesso, per una sorta di nemesi storica, la mano sinistra non sa quello che fa la destra.
Con audacia si è ricollegata la nascita della moderna economia all’evoluzione della matematica che, da sintetica, come sviluppata dai greci, si trasforma, grazie a Cartesio, a Newton e a Leibniz, in analitica, dirigendosi verso lo studio locale delle curve. è l’inizio del capitalismo. Scienza newtoniana e capitalismo sono impensabili separati perché ambedue richiedono un pensiero privo di levità, densificatosi nella costruzione di artifici. Non importa al calcolo mercantile la percezione della vita nella natura, ma piuttosto la sua meccanizzazione. Il profitto personale, nella filosofia di Adam Smith, va a costituire la natura umana, pertanto il corso della storia economica viene rimodellato su questo pregiudizio, nonostante che ricerche etnologiche e antropologiche indicassero il contrario, ponendo invece in risalto la natura sociale, collettivistica e altruistica dell’organizzazione della vita dell’uomo.
Invece Adam Smith, mistificando il passato, mette un’ipoteca sul futuro; perché, come avviene con lo iettatore di Pirandello, l’uomo e la società si dovranno adeguare a quella perversa filosofia. L’entrata in campo della moderna economia è accompagnata da nuovi concetti, e anche dalla trasformazione di vecchi termini: i bisogni dell’uomo, la scarsità, il lavoro, il mercato, lo scambio, il capitale, i mezzi scarsi, i mezzi di produzione, la libera concorrenza. Parole e locuzioni apparentemente neutre, ma che pervertiranno la mente e il pensiero. Ne riparleremo alla fine di questa grottesca favola.
La rivoluzione industriale e l’organizzazione capitalistica inondano la società di merci, di prodotti in serie; la società, sommersa dalla produzione materiale, non riesce piu` a relazionarsi e a dialogare con lo spazio e il  territorio, inizia quindi la graduale scomparsa dell’architettura e dell’urbanistica, del paesaggio urbano e rurale. Strade e piazze, case e palazzi vengono sacrificati alla misura e alla quantificazione delle aree e delle cubature. Non sarà più possibile, per una nazione e per un popolo, concepire e realizzare progetti che lasceranno un’impronta nel territorio, duraturi nel tempo; come le città imperiali romane, il romanico dei comuni, il rinascimento delle signorie, il barocco dei papi. Nuovi e amorfi materiali da costruzione vengono depositati e spalmati, a formare una crosta di cemento e asfalto che caratterizza il territorio urbano moderno. Oggi l’architettura e l'urbanistica sono diventati sterili esercizi stilistici, degli assolo del designer attore senza più rapporto con l’ambiente, il territorio, la cultura e l’arte. Con la morte dell’architettura, cioè sin dalla rivoluzione industriale - anche l’arte, la letteratura e la scienza hanno soltanto il compito di servire come una pelle artificiale di aspetto giovanile, che contribuisce a tenere saldamente insieme lo scheletro, in dissoluzione, del tempo.
Nasce, con il capitalismo, il concetto della creazione artistica, nasce quel personaggio avulso dall’ambiente in cui vive, una sorta  di alterità in una società dedita alla produzione materiale. In altre epoche, invece, il fatto di dipingere, di scolpire, di suonare era connaturato e consustanziale al proprio ambiente,  pertanto non ci si curava di firmare le proprie opere. Federico Zeri, giustamente, si rammaricherà di avere indugiato nell’esercizio dell’attribuzionismo seguendo gli insegnamenti del positivista Giovanni Morelli, invece di porre l’attenzione allo studio delle condizioni in cui le opere venivano prodotte.
Comunque Adam Smith vive un’epoca di ottimismo, la sua filosofia celebra il progresso e la ricchezza ormai alla portata di tutti; per converso la storia celebra l’opera e l’autore, che entrano così nel mito. Sembra che nulla possa ostacolare le sorti progressiste della nuova società. E invece no, la società della disperazione è dietro l’angolo: l’ambiente contadino, con la sua frugalità e umanità, presto si trasforma in quel paesaggio della prima industrializzazione inglese, che molti romanzieri dipingono come un abisso di abiezione: con l’abbrutimento della persona e dell’ambiente, coi lavoratori sfruttati e violentati, coi bambini in miniera, con la miseria senza speranza.
Si assiste, per la prima volta nella storia, anche a una stridente contraddizione: una produzione di beni materiali senza precedenti per quantità, e una condizione umana sotto la sussistenza. Si pensa però che questa debba essere la condizione umana da sempre. E così, sempre nell’Inghilterra povera di storia, un ecclesiastico, il reverendo Robert Malthus, sentendosi chiamato a spiegare lo stato delle cose, dà inizio alla filosofia della disperazione. Egli giustifica candidamente lo status quo in quanto è necessario che gli uomini restino nella miseria, perché è la condizione e lo sprone affinché essi siano costretti a lavorare. Non bisogna dare loro niente oltre lo stretto necessario, perché essi per natura sono incapaci di gestire il di più.
Non a tutti piace la spiegazione. Non piace agli utopisti: Proudhon, Fourier, Owen; la spiegazione non piace soprattutto a un ricco borghese, Karl Marx, che denuncia un fatto ovvio: che il ricco più ricco ruba al povero più povero, e lo deruba attraverso l’appropriazione di una quota parte del suo lavoro, il plus valore, che va a costituire i mezzi di produzione, il cosiddetto capitale, dei datori di lavoro. Marx fa anche notare che, nel processo di appropriazione, c’è il rischio di giungere al fondo della pentola, quando non ci sarà più niente da rubare: il lavoratore, che ha prodotto il capitale di cui necessita il padrone per costituire il sistema produttivo, non serve più perché verrà sostituito da questo; si verificherà quindi quel fenomeno che i tecnici definiscono come «la riduzione tendenziale del saggio di profitto»: il fuoco, bruciando, esaurisce il proprio combustibile.
Marx predice allora la crisi del capitalismo, e dalla polvere della sua rovinosa caduta sorgerà il sol dell’avvenire, il comunismo. Come il suo antagonista virtuale, Adam Smith, anche Marx, quando divide la società in classi in lotta fra loro, effettua una forzatura e una distorsione della storia e della società a proprio uso e mal uso. Introduce il sentimento dell’odio di classe; un odio spesso consumato all’interno della propria classe, dalla spocchia del ceto intellettuale nei confronti degli operai che si sente chiamato a difendere. Notevole e affascinante è l’analisi di Marx riguardo ai connotati che gli oggetti assumono nel mondo capitalistico: non più aventi valore di uso, bensì ridotti a valore di scambio. è la cosiddetta reificazione: qualsiasi cosa viene ad assumere un carattere materiale con un prezzo.
Da qui si eleva un formidabile edificio sociologico, pari all’altro che più tardi Sigmund Freud erigerà sulla psiche e sull’inconscio. Al contrario di Marx, che interpreta la crisi della società in quanto determinata da forze esterne al singolo, Freud si concentra sui conflitti dell’uomo con se stesso. Ancora oggi vi sono circoli dove intellettuali di rara raffinatezza combinano l’analisi marxiana con quella freudiana, e hanno la pretesa di spiegare la struttura del mondo e dell’uomo a tutti gli uomini e al mondo intero. Possono realmente apprezzare il genio di Marx e di Freud soltanto coloro che vedono con quanta precocità essi definiscono le regole del dramma moderno. Sono loro che forgiano i concetti definitivi che sarebbero serviti a definire e a orchestrare il nuovo tipo d’attore, «l’uomo» industrializzato.
Il lavoro salariato apporta un nuovo tipo di sofferenza che distrugge sia gli uomini sia le donne. Tutti i lavoratori retribuiti sono vittime della stessa epidemia di disorientamento, solitudine e dipendenza. Questi sentimenti generano interpreti politici e l’élite di una nuova classe. La diagnosi dell’afflizione universale diviene l’arena della carriera di nuovi professionisti - educatori, medici e altri ingegneri sociali - che prosperano producendo programmi, orientamenti e terapie.
Per certi versi l’analisi di Marx è incontrovertibile, senza vie di uscita, mette perciò in allarme le istituzioni minacciate da scioperi e rivolte popolari. Ma come in un appuntamento con la Storia, dalle nazioni più importanti, come i tre re magi, Menger, Walras e Jevons accorrono al capezzale del capitale e cercano di arginare le forze sociali e intellettuali che il marxismo aveva messo in campo.
Con una mossa del cavallo vengono scombinate le carte in tavola e scambiati gli attori della favola: non vi sono più i capitalisti e i proletari, i padroni e i lavoratori, i ricchi e i poveri; bensì, alternativamente, in diversi momenti della nostra vita, siamo tutti produttori e tutti consumatori, tutti venditori e tutti compratori. Anche il più sfortunato, si fa osservare, può vendere il proprio lavoro e contrattarne - incredibile - il prezzo.
Siamo tutti soggetti, nei nostri atti di vendita e di acquisto, alle leggi della domanda e dell’offerta che, in un mercato perfetto, non possono essere modificate dal singolo attore. Finalmente! L’economia ha raggiunto il suo obiettivo: la scoperta delle sue leggi naturali, l’estromissione dell’uomo dalla scena dei fatti economici per far posto alle curve che descrivono i meccanismi della domanda e dell’offerta, per far posto a un formidabile apparato matematico che mette in relazione le forze del mercato per realizzare le condizioni di equilibrio: una situazione che si raggiunge quando si compra tutta la quantità desiderata al prezzo desiderato; e quando, contemporaneamente, si vende tutta la quantità desiderata al prezzo desiderato. Marginalismo o economia neoclassica è il nome dato alla nuova teoria.
Occorre a questo punto seguire gli sviluppi di una favola parallela, la finanza. Lo scambio di merci, a differenza di come oggi lo intendiamo, in altre epoche rivestiva un aspetto marginale nella vita della società. La rivoluzione industriale, la riduzione dell’uomo alla dimensione economica, l’atomizzazione dell’attività produttiva, l’esplosione della produzione industriale di merci, l’affermarsi della mentalità di mercato, con il conseguente febbrile scambio di merci, sono fenomeni nuovi, di notevole intensità ed estensione. Si impone pertanto una riflessione circa la natura e il significato del mezzo di pagamento, la moneta. Si è già accennato al lavoro come merce di scambio; con maggiore perplessità si può parlare della terra e delle risorse naturali come merce di scambio; anche se, volendo essere coerenti fino in fondo, si dovrebbe parlare anche dell’aria come risorsa naturale e quindi come merce di scambio; allora una persona si potrebbe trovare nella situazione di non poter respirare per mancanza di potere di acquisto.
Quando poi si parla della moneta come merce si scivola in un discorso ambiguo, perché ci si accorge subito che essa può assumere la caratteristica opposta, quella di segno. Un’ambiguità simile a quella dei fisici quando parlano della natura della luce, instancabile viaggiatrice, ora onda nell’universo pieno, ora proiettile nell’universo vuoto. (In questo eccesso di visualizzazioni che mutuamente si escludono, anche i rilievi sperimentali falliscono, e lasciano il campo alle eccessive formalizzazioni einsteiniane, che nascondono le difficoltà dietro antiintuitive relazioni di trasformazione).
La moneta merce, quale l’oro, l’argento o il tabacco, presenta una rigidità dovuta alla sua base materiale difficilmente controllabile o modificabile; al contrario, la moneta segno è flessibile perché basta un provvedimento governativo per stampare e creare nuova moneta. Comunque, fino a una certa epoca, la moneta c’era, come la luce, e non ci si faceva troppe domande sulla sua natura; tutt’al più capitavano degli inconvenienti come in Francia con John Law e con gli assignats. La celebre relazione quantitativa, come la celebre legge di Gresham per cui «la moneta cattiva scaccia la buona», doveva essere sottotraccia nella mente di molti, molto prima che il filosofo David Hume e l’economista Irving Fisher la esplicitassero nella formula: MV=PQ; una relazione di stato come quella termodinamica che collega la pressione, il volume e la temperatura di un gas: PV = RT. Nulla ci dicono, queste relazioni, circa le modalità del raggiungimento di un particolare stato; per cui, se per le leggi della termodinamica si può indifferentemente affermare che: «un fluido compresso si riscalda» e «un fluido riscaldato si espande», similmente, per le leggi della circolazione monetaria, si può indifferentemente affermare che: «un aumento della massa monetaria provoca inflazione» e «l’economia ristagna se la moneta non circola» (trappola della liquidità).
Alla moneta segno e alla moneta merce se ne aggiunge una terza, il credito bancario, un tipo di moneta che alla flessibilità unisce la discrezionalità e l’usura, ma che oggi costituisce la gran parte della massa monetaria. Quindi non sono solo le autorità centrali che possono creare moneta, ma anche le banche, che, sulla base dei versamenti in moneta effettuati, creano un credito pari a diverse volte l’ammontare dei depositi. (Gli storici fanno osservare che già nel tardo medioevo, con le lettere di cambio, erano state poste le basi del sistema bancario).
Vengono date delle regole che stabiliscono le relazioni fra la moneta segno e l’oro, la cosiddetta base aurea o gold standard - al fine di creare stabilità e flessibilità -, fra la moneta depositata nelle banche e il volume dei loro crediti, la riserva - per evitare la bancarotta. La necessità degli scambi fra divise di diversi paesi complica oltremodo la gestione della multiforme moneta. Ai governi, che devono far quadrare i bilanci, si presenta l’annosa questione: se accettare la devalutazione attraverso l’emissione di carta moneta, col rischio di perdere il controllo della situazione, come in Germania negli anni ’22-’23, o di forzare la deflazione, col rischio di una stagnazione economica, come nel ’29.
L’una o l’altra inevitabilmente favoriscono o penalizzano contrapposte categorie: gli imprenditori o i rentier. Il complicato artificio barocco che si viene a creare intorno alla moneta farà impazzire il maggiore poeta del ’900 [nota di SP: Ezra Pound], e, in tempi recenti, porterà all’indignazione un combattivo professore di diritto di Teramo [nota di SP: Giacinto Auriti], che denuncerà per truffa i vari governatori della Banca d’Italia. Si fa notare che anche gli altri termini della relazione quantitativa non hanno una sicura definizione. Le quantità di merci prodotte, Q, aumentano non solo per effetto del progresso tecnologico ma anche in seguito alla riorganizzazione della società: si pensi ai parcheggi e all’uso delle strade, all’acqua, al legnatico (equivalente dell’energia), allo smaltimento dei rifiuti, ieri gratuiti e oggi a pagamento. I risultati del monitoraggio del livello dei prezzi, P, è sempre oggetto di discussioni; o meglio, c’è sempre stato uno sconcio interesse a mascherare una notevole inflazione (ad esempio, nel calcolo dell’inflazione non viene mai considerato il costo delle case, come se fossero investimenti e non abitazioni).
Pure le abitudini di pagamento, che dovrebbero essere registrate da V, sono di difficile verifica. Pertanto, se già la relazione quantitativa fondamentale ha così fragili fondamenta, si ha il sospetto che gli arditi sviluppi matematici successivi possano ridursi a esercizi accademici e a spauracchi per allontanare una pacata riflessione e un controllo democratico.
La grande guerra determina le crisi valutarie degli anni ’20, il crollo della borsa nel ’29, la grande depressione e la concomitante nascita dei totalitarismi. Questi sconvolgimenti favoriscono anche una riflessione critica sulle venerate dottrine economiche. Spesso in economia la teoria segue la pratica; la necessità e il desiderio di un determinato corso mettono in azione gli studiosi, la nuova teoria diventa la ratifica dei desideri di determinate classi o gruppi di pressione. Quasi tutti i governi, dopo il ’29, con empiria e buon senso, abbandonano il gold standard, abbandonano il principio del laissez-faire ed entrano come attori principali nella gestione dell’economia; perché non ci va molto a capire che, se un largo strato della popolazione è senza lavoro e senza reddito, occorre che qualcuno glielo dia; e se l’impresa privata, per qualche increscioso e sconosciuto inceppamento dei suoi meccanismi, non ce la fa, occorre forzare dall’esterno, con l’intervento pubblico.
Qualche anno dopo John Maynard Keynes giustifica l’interventismo statale con una ponderosa opera di letteratura economica: Teoria Generale dell’Occupazione, dell’Interesse e della Moneta. L’economia controllata da un termostato? Il keynesismo che esplode in tutto il mondo tra gli anni ’20 e ’30, e che prende il nome di Fascismo, New Deal e Socialismo in un solo paese, è il tentativo di mettere il termostato all’economia, in modo che meccanismi di retroazione coscienti e non spontanei permettano di conservare lo specifico sistema produttivo capitalistico. Keynes dice esplicitamente che la sua proposta rappresenta la via di salvezza del capitalismo, il quale tende ormai a distruggersi da sé.
Alla fine della seconda guerra mondiale si stipulano gli accordi di Bretton Woods, dove si sancisce il ritorno al gold standard, un modo per mascherare il dollar standard, ovvero il signoraggio statunitense. Ma la Francia di De Gaulle accusa gli Stati Uniti di esportare inflazione; e insieme ad altri stati europei cominciano a risucchiare oro statunitense. Pertanto Nixon, con un’azione brutale, abolisce la convertibilità, dando così inizio all’epoca delle monete fluttuanti. Contemporaneamente agli accordi di Bretton Woods vengono istituiti il Fondo Monetarario Internazionale e la Banca Mondiale, più tardi il World Trade Organization: organismi super partes per regolare il mercato monetario e quello delle merci, e per favorire lo sviluppo e la ricostruzione dei paesi emergenti. Non si sa se per astuzia dei governanti occidentali o per l’eterogenesi dei fini, oggi quelle organizzazioni, con abili operazioni, riuniscono e controllano i capitali di tutto il mondo, ma sempre sotto gli auspici della democrazia e del liberalismo.
Il «costo del denaro» è forse oggi l’espressione più ambigua che circola nel mondo della finanza, un modo per dire che un prestito va restituito con interesse. Ma l’espressione è senza senso, e potrebbe suggerire la «fame del pane» o la «sete dell’acqua». Inoltre, quando mai, se si chiede in prestito una macchina o un attrezzo a un amico o a un conoscente, ci si sente in dovere di restituirgli qualcosa di più di quella macchina o di quell’attrezzo? Del resto, al contrario di quello che si pensa, il finanziamento delle imprese all’alba della rivoluzione industriale proveniva da individui, famiglie, amici, vicini, in modo assai poco formale. Anche l’analisi della parola Banca dovrebbe far riflettere. Banca era un termine per indicare un luogo di deposito per tenere al sicuro la moneta che in epoche passate era ingombrante e di difficile gestione. Ma oggi quella necessità non sussiste, tanto più che l’avvento dell’informatizzazione sta portando alla scomparsa della banconota e dell’assegno, gli ultimi residuati fisici della moneta.
Le persone a modo, altrimenti dette liberali, rispondono sostenendo che oggi la banca, anche se ha cambiato natura, grazie al credito e ai propri strumenti di analisi finanziaria, trasforma il risparmio raccolto in un volano economico, favorendo un armonico sviluppo della libera impresa - ed è proprio l’armonia e la libertà ciò che oggi mancano. In alternativa e in parallelo alle banche si è sviluppato il mercato azionario e obbligazionario: strumenti ancora più ambigui di finanziamento delle imprese, quindi, indirettamente, di creazione di moneta. Il risparmiatore acquista – per così dire – parti di un’azienda, le cosiddette azioni, o presta – per così dire – soldi a un’azienda, le cosiddette obbligazioni; le une e le altre sono in balia dei capricci del mercato finanziario, delle sue fluttuazioni, dei giochi speculativi; tanto che, senza mistero e senza vergogna, le operazioni di borsa vengono anche chiamate «giochi di borsa» e gli sprovveduti risparmiatori vengono additati come «parco buoi». L’interesse bancario e i corsi azionari, mediamente in rialzo nel tempo, trovano poi, purtroppo, un triste contrappeso in una fasulla o disordinata crescita, e in una cripto – ma neanche tanto - inflazione.
Ma è ora di riprendere il filo della favola principale e portarla a conclusione. Verso la fine dell’800 si pensa che il mercato debba svolgere per l’economia quello che l’agorà greca aveva svolto per la vita politica e sociale. Una copiosa letteratura fiorisce intorno al mercato, il principe, o il principio, dell’economia. Ma già un tarlo mina la poderosa impalcatura ideologica che lo sorregge. è abbastanza semplice osservare che una situazione iniziale di effettivo mercato concorrenziale, che si viene a creare con la nascita di un nuovo prodotto, tende a trasformarsi in monopolio od oligopolio, perché l’industria o l’impresa, per diventare più competitiva, deve cercare di allargarsi per meglio ripartire le spese fisse e i costi di gestione; e nel processo di competizione e di espansione assorbirà ed eliminerà via via i propri concorrenti. In un certo senso il mercato concorrenziale è autocontradittorio, perché tende a distruggere sé stesso - come il turismo.
L’inconsistenza del marginalismo, il supporto teorico al libero mercato, del mercato autoregolato, viene definitivamente resa pubblica da un riservato professore piemontese, Piero Sraffa, che in poche pagine, senza una formula, ma con un linguaggio asciutto ed essenziale, ne dimostrerà dall’interno la fallacia delle premesse e delle conclusioni. (Qualche anno dopo un angelo dell’economia dimostrerà che il mercato autoregolato non è mai esistito nella storia, che è un fenomeno assolutamente nuovo, improvviso. Oggi vi sono tutte le prove per affermare che l’idea di un mercato autoregolato implica una grossa utopia che distruggerà l’uomo fisicamente e trasformerà il suo ambiente in un deserto). Produzioni di Merci a Mezzo di Merci è l’unico libro di Sraffa. Lì si dimostra che per ogni particolare distribuzione del reddito tra salari e profitti esiste un corrispondente insieme di prezzi relativi. Di conseguenza, non si può dire che un insieme di questi prezzi relativi sia migliore di un altro, perché sono tutti strumentali alla distribuzione del reddito, l’unica cosa che può diventare migliore o peggiore.
Sfortunatamente la lezione di Sraffa viene poi tradotta in sindacalese con «il salario quale variabile indipendente». Le politiche interventiste, ispirate alle teorie keynesiane, e la presa di distanza dai ciechi meccanismi del mercato saranno comuni, nel dopoguerra, alle economie dei paesi occidentali, saranno anche provvidenziali per le nazioni distrutte dall’ultimo conflitto mondiale. Grazie a queste politiche è stato possibile quel progresso, secondo i parametri economicisti, di cui le nazioni occidentali hanno goduto dal dopoguerra e per 25 anni ininterrottamente. Poi, all’inizio degli anni ’70, si assiste a un fenomeno inflattivo a due cifre, determinato dalle rivendicazioni salariali e dall’impennata dei prezzi del petrolio, che interessa tutte le economie occidentali. I restauratori e i controriformisti non aspettavano altro. Servendosi di un armamentario di idee regressive, a gran voce accusano gli stati scialacquatori e invocano il primato dell’impresa privata, della libera iniziativa. Si risponde alle difficoltà di una vecchia politica economica, nata quarant’anni prima, con una politica che, quarant’anni prima, era già vecchia. Alcuni economisti si prestano al gioco del tiro al piccione-stato. Uno di questi, Milton Friedman, l’economista stupido, rispolvera la vecchia equazione quantitativa; poi, confondendo la correlazione con la causalità, stabilisce, per via osservativa, la costanza della velocità di circolazione, V. Quindi gli viene molto semplice, avendo eliminata un’incognita, addossare la responsabilità dell’inflazione alle autorità statali che, per finanziare le proprie economie spendaccione, aumentano la massa monetaria.
Nicholas Kaldor gli fa però notare che la creazione di moneta, in un’economia creditizia, è endogena e non esogena – inutilmente. Due bifolchi della politica, Margaret Thatcher e Ronald Reagan, da un capo all’altro dell’oceano, adottano i suggerimenti di Friedman, mettendo così a soqquadro le proprie monete e le proprie economie nazionali. La debolezza intellettuale di Friedman è comunque oggetto di molti sarcasmi. In suo soccorso arrivano però gli economisti troppo intelligenti: Barro, Lucas, Sargent, Wallace, i virtuosi della matematica, da loro usata per dimostrare che, per quanto riguarda le politiche economiche, vale il detto: «chi non fa non falla», cioè che stati e governi si devono guardare dal cercare di influire in qualche modo sui processi economici, perché questi posseggono una razionalità interna, ben conosciuta dai singoli individui ed operatori. Questi hanno delle aspettative razionali ben conosciute, e neutralizzeranno qualsiasi intervento inteso a modificare la direzione e il corso naturale delle vicende economiche.
Una posizione-situazione, questa, che si ispira al detto: «fatta la legge trovato l’inganno». La politica del non intervento, suffragata da tanto ingegno, fa molto comodo al pesce grosso; ed è quella che di fatto è oggi adottata dai politici di destra, di sinistra, di tutti i colori e di tutte le ideologie. È successo l’impensabile. Cose che si ritenevano ragionevolmente acquisite, il pensiero di Sraffa, Keynes, Kaldor, eccetera, non è già discusso o confutato, ma semplicemente passato sotto silenzio o dimenticato, mentre invenzioni ingenue e inverosimili, come l’economia dell’offerta o il monetarismo, vengono alla ribalta. Parimenti, i cantori del neoliberismo presentano le loro aberrazioni come evidenze del buon senso, quando la libertà assoluta dei movimenti del capitale rovina settori interi della produzione di quasi tutti i Paesi e l’economia mondiale si trasforma in un casinò planetario.
È rinato il mito del mercato, in forma ancora più radicale, pertanto più ideologica; si arriva anche a pubblicare libri dal titolo: Privatizziamo il Chiaro di Luna - forse per metterlo in concorrenza con la luce del sole; spregiudicatamente si offre al mercato, cioè ai padroni ladroni, la proprietà delle autostrade, della rete idrica, elettrica, ferroviaria. Si pretende cioè di mettere in un mercato concorrenziale attività per loro natura esclusive.
Ovviamente i guadagni stratosferici dei gestori della sala mungitura dei servizi di pubblica utilità sono un formidabile olio persuasivo nei confronti dei politici di ogni colore e fazione; giornalisti, professori, tecnici, storici fanno a gara ad esaltare la nuova scoperta dell’economia moderna, il mercato.
Ovviamente non mancano gli ingenui e gli utili idioti: gruppi e circoli che, con l’ostinazione dei nuovi arrivati o dei convertiti dell’ultima ora, recitano le formule di rito: «meno stato e più mercato», «la classe dei produttori contro quella dei burocrati». Anche le persone più leali, serie e d'antica prova si sono convinte della bontà del mercato. Ahi che è fatto - con intenti criminosi, all'opposto d'ogni lealtà - dalle multinazionali. I ricchi più ricchi hanno intuito: le produzioni massive messe in opera da una manovalanza sottopagata, daranno loro un potere assoluto. E lo hanno realizzato con una spietata e inesorabile consecuzione a partire dai paesi più poveri, per semplificare ed esemplificare, dallo Zambia all'Argentina. Vi sono stati processi politici per massacri bellici, concepiti e realizzati; ora chiediamo processi per crimini che hanno portato e portano alla fame, alla disperazione e alla morte, vittime ancora più numerose. Contro i ricchi più ricchi che hanno sradicato le colture e la cultura, ovunque non gli sono state contrapposte l'indisciplina, la refrattarietà e la ribellione.
Miliardi di ettari di terra ora incapaci di soddisfare le loro popolazioni, proprio per la cancellazione di ciò che era stato prodotto e li aveva alimentati per secoli. Aggiungi che «ragioni» politiche e religiose hanno indotto ad una moltiplicazione anche criminale della crescita demografica. Oggi abbiamo ovunque nel mondo una agricoltura transgenica mostruosa con rese sempre più alte e qualità peggiori, per confezionare bevande e cibi da imporre coi mezzi più ingannevoli, quale la pubblicità, i più orridi, quale la guerra, a popolazioni che si sono trovate nello stesso momento prive del nutrimento abituale e avvelenate dalle farine, dalle coca cole e dagli hamburger altrui.
L’integerrimo economista, Federico Caffè, piuttosto che assistere inerme all’impazzimento generale preferisce togliere il disturbo: letteralmente scompare; John Kenneth Galbraith, il decano degli economisti americani, invece, si rifugia nel sarcasmo e nei ricordi. E siamo arrivati alla fine della favola, e si spera di non arrivare alla fine della nostra civiltà, perché ci sono i segni di una catastrofe imminente. Dopo avere spazzato via l’architettura e l’urbanistica, il mercato oggi vuole depredare la Terra stessa, con l’inquinamento dell’aria e delle acque, con le devastazioni del territorio, il sovvertimento climatico e l’esplosione demografica. Il sistema industriale è lasciato andare alla deriva.
Si pensi che la quasi totalità delle materie prime e dell’energia poggia su una sola risorsa, il petrolio, per giunta in via di esaurimento e concentrato in poche regioni politicamente molto instabili. La rapina comunque interessa tutto l’ecosistema, dalle foreste secolari ai fondali marini. L’uomo economico non si preoccupa più del suo ambiente, anzi è come un bambino che, trovandosi in casa con i muri di cioccolata, si è messo a mangiarli, senza capire che presto il resto della casa gli cadrà sulla testa. Tutto questo in nome di uno sviluppismo economicistico che conduce alla disperazione, di conseguenza conduce anche a un pericoloso rigurgito di fondamentalismo religioso, islamico e cattolico.
Forse questa favola poteva seguire un altro corso. Se i nostri economisti avessero riflettuto maggiormente sulle parole e sul loro uso avrebbero risparmiato all’umanità tragedie a non finire. Quello che è successo da più di duemila anni nella filosofia, si sta ripetendo da più di duecento anni nell’economia: l’uomo sta ingannando se stesso e il proprio pensiero. I sacri testi, nelle prime pagine, spiegano che l’economia è la scienza che studia l’allocazione dei mezzi o risorse scarse per massimizzare la soddisfazione dei bisogni crescenti; cioè l’economia come un problema di ottimizzazione, di min-max.
Si può far notare che un italiano in buona salute soddisfa i suoi bisogni tutti giorni. Fisiologia a parte - è comunque ridicolo parlare, come fanno i testi, di bisogni insoddisfatti o sempre crescenti nel mondo occidentale, quando oggi metà della popolazione cerca strenuamente di vendere qualcosa all’altra metà recalcitrante; spesso usando mezzi illeciti o imbecilli, come la pubblicità. È assurdo parlare di bisogni insoddisfatti quando oggi la tecnologia ci mette a disposizione migliaia di opere musicali e letterarie, racchiuse in astucci di microelettronica, e a un costo irrisorio.
Pertanto, la sfida di Amleto: «Posso essere racchiuso in un guscio di noce e sentirmi sovrano dello spazio infinito» oggi è purtroppo ribaltata in un sentimento di nullità: «Ho il mondo racchiuso in un guscio di noce e non ho il potere su niente». Un’altra assurdità economicistica proviene dall’analisi marxiana, eredita da Adam Smith, del lavoro come merce. Perché gli economisti, quando trattano il lavoro come merce, trasferiscono un proprio modello, limitatamente valido, a tutte le attività umane. Mentre il lavoro è un modo di esplicarsi della persona, un modo per manifestarsi, per costituire il proprio essere. Difatti, cosa sarebbe Mozart senza la sua musica? e Raffaello senza i suoi dipinti? Avrebbero prodotto di più o di meno se avessero ricevuto in vita l’attuale valore monetario delle loro opere?
Considerazioni analoghe si possono avanzare anche per i lavori più umili: l’agricoltore soddisfatto della bontà dei frutti che ha coltivato, il muratore soddisfatto della bellezza della casa che ha costruito. Scarsità. L’acqua come «merce scarsa» è l’epitome dell’aberrazione dell’economicismo odierno. L’acqua è quella che è. Una nazione o un popolo si deve adeguare alle disponibilità e alle situazioni presenti. L’eschimese, che vive sull’acqua, e i carovanieri del deserto non dicono che l’acqua è abbondante o scarsa. Essi organizzano la loro vita, la loro attività in relazione all’acqua che hanno a disposizione. Anche l’attrazione gravitazionale che ci tiene a terra è quella che è, e un ingegnere si farebbe ridere dietro se dicesse che è abbondante o scarsa. Ovviamente il concetto di scarsità fa molto comodo, e ci dovremmo aspettare di vedere commercializzata anche l’aria.
Gli è che le risorse sono scarse anche in virtù di un condizionamento culturale: si pensi all’oro e ai diamanti. Crescita e PIL. La crescita fisica di un individuo, la crescita di piante e di animali è un fenomeno transitorio nell’arco della loro vita. Oggi invece una regressione primaria porta a considerare la crescita economica o l’aumento del prodotto interno lordo, il PIL, come l’obiettivo economico primario; non ci si accorge che, sommersi dalle merci, come nel corpo sovralimentato, le funzioni vitali rallentano e si vive male. (Questa regressione primaria colpisce anche l’indagine cosmologica, attaccata in modo infantile al «grande botto» e alla consecutiva espansione dell’universo, nonostante che semplici osservazioni, oramai alla portata di cannocchiali amatoriali, smentiscano la teoria. Ma non si può abbandonare la riposante immagine di un universo che cresce). L’eccesso di materiale-merci derivanti dal forzato aumento del PIL trova sfogo nel sovraconsumo della classe burocratica pubblica e privata - altrimenti detta management.
Per giustificare la propria esistenza, la burocrazia avanza come una lava che trasporta cumuli di normative e controlli capricciosi, valanghe di divieti e obblighi assurdi. Dopo il passaggio della burocrazia amministrativa arriva quella medica che estende la medicalizzazione della vita, quando va bene; quando va male blocca semplici e gratuite terapie a favore di terapie costose e dannose; quando va malissimo inventa delle terribili malattie e conseguenti progetti per costosissime ricerche per combatterle.
Comunque le istituzioni più efficaci nel consumare PIL sono la scuola e il sistema pensionistico. Le strutture scolastiche sono ormai diventate immani parcheggi per studenti e lucrose fonti di reddito per gli insegnanti. Si è però obbligati a sostenere una specie di recita o di rito, dove un certo numero di nozioni deve fluire da una parte a un’ altra, senza la passione di chi deve insegnare e l’interesse di chi deve apprendere, e con frustrazione per entrambe le parti. È motivo di perplessità quando, per denunciare la finzione scolastica, si fa notare l’apprendimento più difficile per l’uomo, dal punto di vista fisico e intellettuale, camminare e parlare, avviene grazie esclusivamente alle cure parentali.
Se l’ingresso nel mondo del lavoro è ritardato, la sua uscita è anticipata, anche se, in un gioco delle parti, oggi sembra si voglia rimettere in discussione l’età della pensione. Ci sono ancora degli ingenui che discutono circa il significato economico del complesso militare industriale: se è solo un assorbitore di risorse, di PIL, oppure se può funzionare come moltiplicatore keynesiano. Ma si tratta di briciole: il keynesismo militare ha fatto la sua epoca, anche se il Pentagono ordina ancora giocattolini e gli States si impegnano in stupide guerre.
Una maggiore riflessione occorreva rivolgere alla moneta che è il sangue dell’economia. Non è possibile spiegarsi la struttura, la funzione e l’essenza stessa dello strumento monetario, senza muovere da considerazioni strettamente giuridiche. Come è noto, le definizioni oggi proposte della moneta sono riconducibili tutte alle due ipotesi di «valore creditizio» e «valore convenzionale». Poiché, sia il credito che la convenzione sono delle fattispecie giuridiche, è ovvio che sfugge al controllo scientifico dell’economista ogni possibilità di un’analisi approfondita della fattispecie.
Se a ciò si aggiunge che la moneta si manifesta in quella forma particolare per cui il simbolo viene considerato di «corso legale», ci si accorge che l’istituzionalità e la rilevanza giuridica che il simbolo monetario assume nei confronti della coscienza sociale fanno sì che il valore monetario si oggettivizzi come bene in virtù di un procedimento creativo che è esclusivamente giuridico. È solo in un secondo tempo che l’economista può prendere in considerazione questo bene e valutarlo come protagonista di grande rilievo nelle vicende economiche. Ove mai non accettasse come punto di partenza dell’indagine monetaria la fenomenica giuridica da cui la moneta trae origine, la sua indagine si manifesterebbe come puro fatto empirico perché, mancando il lui la consapevolezza dei principi, verrebbe meno la possibilità di elaborare strumenti conoscitivi di dignità scientifica.
Occorre anche chiedersi cosa sia effettivamente l’economia, occorre valutare una sua radicale trasformazione semantica, passando dalla sua odierna accezione formale, la massimizzazione/minimizzazione dei prodotti/mezzi, a quella sostanziale, il rapporto istituzionalizzato fra l’uomo e la natura.

12 commenti:

  1. ...."Questa regressione primaria colpisce anche l’indagine cosmologica, attaccata in modo infantile al «grande botto» e alla consecutiva espansione dell’universo, nonostante che semplici osservazioni, oramai alla portata di cannocchiali amatoriali, smentiscano la teoria."
    E quali sarebbero queste "semplici osservazioni alla portata di cannocchiali amatoriali" che confuterebbero il Big Bang? FARNETICAZIONI!! La teoria cosmologica del Big Bang è universalmente accettata da tutta la comunita' scientifica e l'universo si espande, anzi da 5 mld di anni accellera l'espansione. Gianni Comoretto, se ci sei batti un colpo :=)

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  2. Io mi ero fermato a "anche i rilievi sperimentali falliscono, e lasciano il campo alle eccessive formalizzazioni einsteiniane, che nascondono le difficoltà dietro antiintuitive relazioni di trasformazione". Che tradotto significa: "io non capisco niente di fisica e quindi sono evidentemente tutte cazzate".

    Ma anche citare Pound o Auriti lo qualifica piuttosto male...

    Sull'interesse nel prestito. Certo che se presto un'auto ad un amico non chiedo indietro altro oltre all'auto. E in genere se faccio un prestito amicale non chiedo un interesse. Ma se vado da uno che di mestiere presta auto (che so, la Hertz) non credo che questi si accontentino che l'auto glie la riporti intatta. Poi personalmente guardo con molto interesse esperimenti di prestito senza interesse (mi scuso per il bisticcio), ma sono in un'ottica diversa.

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  3. Se dovessi pubblicare solo ciò su cui sono interamente d'accordo pubblicherei solo me stesso.

    Giudicare un testo da alcune sue parti è sbagliato.

    Le citazioni sono sempre interessanti e considerarle mal qualificanti significa avere pregiudizi.

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  4. In un testo di cui non sono competente cerco di capire se l'autore sia o meno in grado di fare ragionemanti sensati dai pochi punti in cui ne capisco qualcosa. Non sono in grado di capire e seguire i riferimenti alle varie scuole economiche, non ne so abbastanza. E non posso onestamente mettermi a prendere una laurea in economia per capire se questo testo sia o meno sensato.

    E chiaro che in un testo di economia guardare cosa scrive di fisica è parziale. Ma già dà un'idea che questo ha un'idea della scienza molto "particolare".

    Ma capisco qualcosa anche su Auriti. Che è di fuori come i terrazzi. Se questi gli dà spago, mi preoccupo. Perché è facile scrivere qualcosa che sembra molto sensato in un argomento che non è quello dell'interlocutore. E poi renderlo MOLTO appetibile dando contro a chi all'interlocutore sta sui cosiddetti. Ma se la sostanza dei ragionamenti è del livello di quelli di Auriti, il tutto è solo un lungo elenco di citazioni dotte, luoghi comuni di chi vede male l'attuale sistema finanziario (me compreso), e un po' di pseudoragionamenti ad effetto.

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  5. Egr. Pardi,
    su richiesta di un Suo Lettore ho svolto, e sto svolgendo, delle ricerche sull'originalità del pezzo..

    Nutro dei dubbi che sia INTERAMENTE dell'Alvi.

    Sto cercando di delineare la reale situazione.

    Le farò sapere..

    sandro

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  6. Caro Pascucci, sto seguendo le indagini di cui ci sta informando anche Licheri sulla mail list di Rientrodolce. Se dovesso uscire qualcosa anche di lì anche io le farò sapere. Resta il fatto che trovo l'articolo interessante, anzi ottimo, a prescindere dalle stranezze che può contenere.

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  7. Sì, concordo. Ed è anche [un po'] divertente e [molto] didattico: se scoprissimo che l'ha scritto il Diavolo in persona.. che si fa? Si rinnega l'annuir di testa del mentre lo si leggeva? ;)

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  8. .. diremmo come sempre:
    "Salute o Satana
    o ribellione
    del mondo vindice
    della Ragione."

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  9. In realtà che la teoria del Big Bang sia accettata dalla comunità scientifica, non è una assoluta garanzia della sua indiscutiblità.
    Gli ormai pluridecennali studi di Halton Arp sullo spostamento verso il rosso di oggetti stellari relativamente vicini, sono una bella botta alla teoria del BB, alla quale la comunità scientifica ha risposto con il dileggio o elaborando teorie sempre più complesse per farci stare le evidenti contraddizioni.
    Insomma, senza volere dare nulla per scontato, non è affatto detto che il futuro delle ricerche cosmologiche, non riveli grosse sorprese.
    Per il resto, l'articolo mi sembra così esaustivo che è difficile aggiungere altro.
    Se gli esperti del settore storcono il naso a sentire nominare questo o quel nome, ciò non cambia la sostanza del ragionamento.
    Massimo

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  10. Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.

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  11. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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  12. La micragnosa vendetta del verme è stata eliminata.

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