martedì 28 gennaio 2014

Una generazione perduta.





In questi anni sta andando in pensione una straordinaria generazione di scienziati. L'ultima che ha avuto contatti diretti con i grandi scienziati del 900', quelli che hanno lasciato un nome nella storia della scienza. Si tratta di un immenso patrimonio di conoscenza e competenze che gradualmente sparirà per lasciare posto alle generazioni successive che sono cresciute alla loro ombra. E' sempre andata così direte. Non proprio. Dal secondo dopoguerra la scienza nel suo complesso ha subito una rapida trasformazione ed espansione e la generazione di cui sto parlando ha avuto un ruolo preminente in questa trasformazione. Nel bene e nel male.

Per parlare del bene basta aver frequentato i laboratori e i centri di ricerca in giro per il mondo e vedere le realizzazioni teoriche e sperimentali, le imprese di indagine esplorativa e osservativa; dal mondo delle particelle subatomiche al cosmo intero, passando per le scienze della vita e della terra; dai sistemi semplici a quelli complessi, in una gerarchia che permette lo scambio e l'arricchimento in ambedue le direzioni.

Oggi sappiamo molto di più sul mondo che ci circonda rispetto a chi viveva nel periodo fra le due guerre. E, quello che forse è ancora più importante, abbiamo un metodo sedimentato per indagarlo. E il merito di tutto questo è in parte preponderante degli scienziati ed in particolare di quelli che stanno uscendo di scena in questi anni.

Fin qui il bene.

E il male? Il male è che hanno lasciato avvenire la, o, peggio, in alcuni casi, hanno partecipato alla, trasformazione della scienza, intesa come indagine della natura guidata dalla curiosità, in una attività ancillare dell'industria capitalistica. La decantata ricerca scientifica è oggi una competizione per la realizzazione di "prodotti" che possano essere venduti sul mercato. Si badi bene, non utili, semplicemente vendibili. Anche se si tratta di innovazione figurativa come il 99.7% dell'innovazione attuale (cioè entro le 3 deviazioni standard dalla media). Tale realizzazione necessita di risorse economiche sempre crescenti, a causa della complessità dei problemi che si affrontano (su questo tornerò, ma ha a che fare con l'inevitabile legge dei ritorni decrescenti di un'attività, quella della ricerca, che, per analogia, possiamo accostare all'attività di estrazione mineraria), su queste risorse scarse si sviluppa una crescente e accanita competizione fra scienziati e gruppi di scienziati che, al di là della retorica economicista che tutto riporta a leggi di mercato astrattamente confermate, ma spesso empiricamente smentite anche nel mercato delle merci, fa emergere molto più del merito la subalternità culturare e, quindi, politica (non nel senso di partitica, ma con riferimento alla politica accademica).

Le generazioni di giovani ricercatori hanno subito un pesante lavaggio del cervello ideologico grazie al quale curano ormai più le capacità di marketing che la preparazione e, soprattutto, più che seguire il proprio istinto e la propria curiosità.

A tutto questo, la generazione in partenza non si è opposta altro che con qualche mugugno, dal basso (cioè da parte degli sfigati, cioè coloro che hanno fatto poca carriera accademica) mentre dall'alto, i baroni e i tromboni dell'accademia, mai scalzati dai loro feudi, hanno lavorato sodo per consolidare questa configurazione della ricerca che gli dava potere e risorse.

Quello che sto descrivendo per la scienza è solo uno dei tratti che delineano la non sostenibilità sociale dell'assetto socio-economico attuale che, a sua volta, è l'altra faccia della medaglia di una, più profonda, non sostenibilità ecologica. E' la forma che la scienza assume in prossimità del Picco di Tutto. Probabilmente anche di un Picco della Scienza. A dispetto dei cantori delle magnifiche sorti e progressive e delle majorettes dell'Innovazione purché sia.