domenica 20 luglio 2014

Un film già visto tante volte, ma come andrà a finire?



Di Jacopo Simonetta.

Mentre fra Israele e Palestina si replica un tragico film già visto chissà quante volte, sempre uguale, anche sulla stampa nostrana si rilancia la polemica fra chi tifa per gli uni e chi per gli altri; su chi sia più colpevole o su chi sia l’aggredito e chi l’aggressore, ecc.   Tutti argomenti che penso sia del tutto inutile discutere in quanto ognuno ha già le sue idee ben radicate
Piuttosto, credo che potrebbe essere interessante fare qualche illazione su come andrà a finire.   Non questa puntata, ché probabilmente finirà come tutte le precedenti; bensì su come finirà la serie.   Voglio dire: continuerà così in eterno?   Oppure ad un certo punto cambierà qualcosa e sarà trovato un accordo vero?   Oppure uno dei due contendenti riuscirà ad annientare l’altro?   Ed in questo caso, presumibilmente chi dei due?
Come sempre quando si cerca di sbirciare attraverso le nebbie del futuro la probabilità di azzeccarci è minimale; queste righe vogliono quindi essere solamente uno spunto per riflettere su alcuni aspetti della questione normalmente trascurati.   Non un pronostico.
Gli elementi in gioco sono tantissimi, ma forse i principali sono: forza militare, forza politica, forza economica.    Allo stato attuale sappiamo quali sono, ma sarebbe interessante capire come l’evoluzione in corso nel sistema globale modificherà lo scenario in questione.
Per prima cosa diamo dunque un’occhiata all’attuale forza relativa dei due contendenti.   
Sul piano militare, Israele dispone di uno dei migliori eserciti del mondo, mentre dall’altra parte si schierano alcune migliaia di miliziani, perlopiù combattenti altamente motivati ed ottimamente addestrati, ma niente di neppur lontanamente comparabile con le forze cui si oppongono.   Teoricamente la guerra dovrebbe risolversi nel giro di pochi giorni ed invece va avanti da decenni.   Come è possibile?
Un primo tassello di questo puzzle è rappresentato dal tipo di forze che si contrappongono.    Nel tempo, Israele si è dotata di una forza militare studiata e strutturata per combattere e vincere una guerra convenzionale con i paesi confinanti.    Ma si trova a combattere una guerra non convenzionale in cui la componente politica è predominante su quella militare.   Semplicemente non possono utilizzare che una parte minimale del loro potenziale bellico perché in un ambiente urbano compatto come Gaza questo significherebbe migliaia e non diecine di morti al giorno; quasi tutti civili.   Se anche volessero (e non è detto che lo vogliano), non possono farlo.   I loro stessi alleati glielo impedirebbero.
Dall’altra parte, Hamas (come nel recente passato e forse in futuro Hezbollah) non ha alcun bisogno di centrare qualche obbiettivo minimamente rilevante.   Solo il fatto di continuare a sparare dei razzi contro un avversario smisuratamente più potente gli assicura la vittoria politica e morale.   Anche se i loro razzi fanno dei buchi per terra o poco più.
Altra asimmetria importante è il rapporto con i civili, propri ed altrui.   Da parte israeliana vige la necessità di garantire la completa sicurezza dei propri cittadini.   Non era così ai tempi in cui i Kibbuzin andavano nei campi con il fucile ad armacollo, ma oggi l’uccisione di un solo israeliano è giudicata un fatto inammissibile e vincola il  governo a reazioni anche spropositate.   D’altronde, se l’uccisione di civili palestinesi è entro certi limiti tollerata dalla comunità internazionale, non c’è dubbio che ogni singolo caduto da parte palestinese favorisce Hamas a tutti i livelli, sia interni che internazionali.   Paradossalmente, mentre per il governo israeliano ogni singolo civile ucciso (proprio od altrui) è un colpo politico, per i suoi avversari più gente muore (propri a ed altrui) e maggiore è il vantaggio politico e di immagine che ne ricavano.   Molti commentatori sostengono anzi che le milizie palestinesi usino scientemente i propri civili come ostaggi.   Di fatto funziona così ed è una cosa vista anche in altri contesti, ma non darei per certo che sia un fatto voluto.   Del resto, durante gli scontri fra Hamas e Al Fatah (2006-2007) la percentuale di civili uccisi fu ugualmente molto alta, malgrado non vi fosse alcun interesse politico in tali morti.
Comunque sia, sul piano militare Israele  non ha la minima possibilità di soperchiare una volta per sempre il nemico; mentre le milizie islamiste non possono neppure ingaggiare seriamente il nemico.   Dunque una situazione di sostanziale stallo, malgrado l’enorme disparità di forze in campo.
Sul piano politico, ho la netta impressione che siano lontani i giorni in cui i governi Rabin e Peres davano l’impressione di cercare davvero un ragionevole compromesso.   La tecnica arafattiana di trattare fino alla soglia di un accordo per poi mandare tutto a monte e ricominciare daccapo è stata efficace nel portare a Gerusalemme governi più o meno legati all’estrema destra religiosa ebraica, cosa che a sua volta ha molto favorito la popolarità delle fazioni estremiste in campo avverso.   Non so se sia stato voluto, ma di fatto l’effetto è stato quello di consegnare entrambi i popoli a delle classi dirigenti che hanno tutto l’interesse a mantenere uno stato di belligeranza cronico che assicura ad entrambi il mantenimento del rispettivo potere.   In sintesi, il migliore alleato politico di Netanyahu è Haniyeh e viceversa.    Una situazione comune anche in altri contesti.
Sul piano internazionale, entrambi i contendenti godono di protezioni potenti, ma molto più intricate di quanto non lasci credere la stampa corrente in quanto molti soggetti (governi e non) sostengono contemporaneamente più d’una tra le fazioni in causa e su entrambi i fronti.   Ma soprattutto le potenze che sostengono i contendenti ne vincolano anche, in una certa misura, l’operato.   Dunque, anche su questo piano, nessuna delle due parti ha la minima possibilità di rovesciare l’altra.   Non può Hamas perché non ne ha la forza; non può Israele perché i suoi alleati più vitali non glielo permetterebbero.
Esiste però un altro piano rilevante: quello economico.    Anche in questo caso a prima vista non c’è confronto possibile fra uno stato dotato di un’economia pienamente industrializzata ed un’organizzazione politico-militare che tira avanti con le rimesse degli emigrati, le tasse che riesce ad esigere da una popolazione perlopiù poverissima ed aiuti da paesi terzi che perseguono comunque scopi diversi da quelli che si pongono i principali contendenti in campo.   Eppure, proprio su questo piano è Hamas ad avere in mano le carte di migliori.   Anche se oggi dei missili di media gittata hanno sostituito (o integrati) i razzi Qassam, ordigni rudimentali estremamente imprecisi, con cui Hamas ha bersagliato il territorio nemico per anni, il fuoco proveniente da Gaza è ancora molto più economico ed efficace nel provocare una reazione che si manifesta invece con sistemi d’arma spaventosamente costosi sia d’acquisto, che di uso.   Un solo missile del sistema “iron dome” costa probabilmente molto di più di tutti i razzi sparati da Hamas nella sua storia, per non parlare dell’oltre 1 miliardo di dollari che ne è costato il suo sviluppo.    E lo stesso dicasi per i costi relativi al far volare un F-16, il costo del munizionamento impiegato, ecc.   Tutto ciò è importante perché porta un notevole contributo al debito pubblico dello stato ebraico (circa il 75% del PIL).
Questo ci porta alle prospettive.   Senza entrare qui in dettagli, lo scenario globale in cui questo conflitto si inserisce è quello “postpicco” cui è dedicata una vasta letteratura cui si rimanda.   In estrema sintesi: riduzione quali/quantitativa delle risorse energetiche con conseguente peggioramento delle condizioni economiche a livello globale, ma in modo non uniforme per i vari paesi e per le diverse classi sociali, con conseguente crescita delle tensioni politiche, sociali e militari.   Contemporaneamente, peggioramento complessivo delle condizioni ecologiche del Pianeta, con particolare riguardo al clima, alla produzione di cibo, alla disponibilità di acqua ed alla pescosità degli oceani.   Un quadro di questo tipo che influenza potrebbe avere sul conflitto israelo-palestinese?
Israele è uno fra gli stati a più alta densità di popolazione del mondo (365 ab/kmq nel 2012), oltre che uno fra quelli a più alto input tecnologico ed energetico; per sopravvivere dipende totalmente dal commercio con l’estero e largamente da aiuti economici da paesi (principalmente dagli USA) che versano a loro volta in situazioni economiche certamente non floride, con tendenza al peggioramento.   Anche senza la guerra, è molto probabile che subirà danni particolarmente gravi dall’insieme dei fenomeni connessi con il procedere della recessione globale e del picco energetico.    In questo senso, può essere efficace la strategia di Hamas di indurre Israele a spese crescenti che non possono sortire l’effetto di annientare il nemico, ma che possono viceversa aumentare la fragilità economica e politica dello stato ebraico.
D’altronde, la situazione dei territori palestinesi ed in particolare a Gaza è già ampiamente drammatica anche senza la guerra, che non può che peggiorarla.   Anche in questo caso abbiamo di fronte un “quasi stato” che vive sostanzialmente di aiuti dall’estero, in un contesto in cui tutti i suoi principali sponsor  stanno affrontando problemi economici e politici crescenti, sia in ambito interno che estero.   A cominciare dalle petrocrazie, anch’esse strette fra crescita demografica, riduzione o stagnazione delle produzioni, crescenti tensioni interne ed internazionali.   Non è difficile prevedere un progressivo inaridimento di molte delle principali fonti di finanziamento attuali.
Sul piano politico internazionale, già attualmente il conflitto in questione è slittato molto indietro nella lista delle priorità delle potenze straniere a vario titolo coinvolte: l’espansionismo cinese, il revanscismo russo, lo sgretolamento americano, la possibile dissoluzione dell’Europa e dell’India, il sempre più serio pericolo di una guerra aperta fra Arabia Saudita ed Iran sono solo alcune delle preoccupazioni che stanno catalizzando l’attenzione delle cancellerie mondiali.   E’ probabile che negli anni a venire la guerra israelo-palestinese perda ulteriormente d’interesse per i governi e le opinioni pubbliche mondiali, se non come pedina nel quadro del “grande gioco” attorno alle residue riserve di greggio di buona qualità.
E dunque,  quali potrebbero essere degli scenari realistici?   Nel breve termine, credo che semplicemente non cambierà nulla, anche se è bene ricordare che spesso eventi storici importanti prendono le mosse da eventi comuni.   Quello di Mohamed Bouazizi non è stato né il primo, né l’unico suicidio di protesta col fuoco, ma fu la scintilla che scatenò una serie di rivolte destinate a cambiare il quadro geo-politico mondiale (anche se non nel senso sperato, come spesso accade).  
Inoltre, il prossimo gradino discendente nelle economie dei principali paesi impegnati in questo scacchiere (USA, EU e petrocrazie) avrà probabilmente conseguenze molto gravi sull’economia israeliana e devastanti su quella palestinese.  
Ed allora?   Puramente a titolo di congettura, avanzerei tre scenari forse possibili, ma non ugualmente probabili.
1 – Cambiamento radicale delle politiche israeliana e palestinese.   In teoria, potrebbero entrambi capire che collaborare è l’unica strada per mitigare (anche se certo non evitare) la durezza dei tempi a venire.   Ma la dose di odio e timore reciproci sapientemente coltivata nei decenni su entrambi i fronti rende una tale prospettiva quanto mai improbabile.  
2 – Guerra totale.   A Cylon la guerra fra Cingalesi e “Tigri Tamil” è durata oltre 25 anni e per molti aspetti è stata simile a quella fra israeliani e palestinesi, con forze governative soverchianti impossibilitate ad usare pienamente il loro potenziale per la costante presenza di civili in prima linea.   Ma nel 2009 l’esercito cingalese attaccò i territori controllati dai ribelli sparando con tutto quello che aveva su chiunque indiscriminatamente: miliziani, ostaggi e civili; tamil e cingalesi.   Il numero dei morti non è mai stato accertato, ma sicuramente fu di parecchie diecine di migliaia di persone; la struttura militare delle Tigri fu spazzata via e la popolazione tamil supersite fu in gran parte internata in campi di concentramento dove molti morirono poi di stenti. http://www.ilpost.it/2013/10/03/foto-tamil-sri-lanka-andrea-kunkl/
Potrebbe una cosa simile ripetersi in Palestina?   Per adesso sicuramente no.   Non lo vorrebbero la maggior parte degli israeliani e non lo permetterebbero gli USA, ma cambiando il quadro internazionale e peggiorando le condizioni di vita su entrambi i fronti, non è da escludersi un’escalation di violenza al momento senza precedenti in zona.
3 – Recrudescenza progressiva.   Una terza possibilità è che con il tempo gli israeliani si vedano costretti a ridurre il loro budget della difesa, con conseguente abbassamento dello standard tecnologico e dunque del divario fra le forze in campo.   Un simile scenario aumenterebbe considerevolmente le possibilità operative di Hamas e forse è questa la loro strategia.   Ma non credo che sarebbe favorevole per la popolazione civile su entrambi i fronti.   Infatti, se i soldati con la Stella di Davide si trovassero costretti a combattere casa per casa, con tecniche ed armi non molto diverse da quelle del nemico, è probabile che su entrambi i fronti il numero di atrocità gratuite aumenterebbe, generando una spirale di vendette al cui confronto quella attuale potrebbe sembrare una situazione pacifica.   La guerra attuale potrebbe insomma diventare simile alla guerra civile siriana.
E le armi nucleari?   L’arsenale israeliano è stimato fra gli 80 ed i 200 ordigni, ma in realtà tutto si basa su indiscrezioni e stime che il governo non ha mai né confermato, né smentito proprio per disporre di una deterrenza nucleare senza però assumersi gli impegni internazionali solitamente connessi con lo status di “potenza nucleare” e (forse) senza neppure accollarsi le spese iperboliche connesse con la realizzazione e la manutenzione di queste armi.
Dunque non si sa se questo arsenale davvero esista ed, eventualmente, in quale misura sia operativo; ma se esistesse, in tempi di progressivo collasso economico Israele si troverebbe, come altri stati, nell'imbarazzante situazione di disporre di armi che non si potrebbero più permettere di mantenere, ma che non potrebbero neppure smantellare (sempre per i costi eccessivi) e nemmeno abbandonare (per i rischio che qualcun altro le trovi).   E neppure utilizzare perché si tratta di armi destinate unicamente alla deterrenza nei confronti di potenze militarmente preponderanti; attualmente solo l’Iran potrebbe forse rivestire questo ruolo, ma personalmente ritengo molto più possibile una guerra fra Iran ed Arabia Saudita per il controllo del petrolio iracheno, piuttosto che un attacco ad Israele che ho l’impressione interessi sempre meno all'opinione pubblica araba.   Non per un sopravvenuto desiderio di pace od altro, ma semplicemente perché pressata da problemi molto più contingenti e direttamente sulla propria pelle (fame, disoccupazione, abnormi disparità economiche, razionamento dell’acqua, ecc.).
In definitiva, se il governo israeliano spera di spingere la popolazione palestinese a ribellarsi ad Hamas ed accettare un trattato molto peggiore di quello a suo tempo rifiutato da Arafat, credo che si sbagli di grosso. L'isolamento, l'eccesso nelle rappresaglie e la progressiva usurpazione di territorio con sempre nuovi insediamenti ebraici stanno sortendo, mi pare, l'effetto esattamente contrario.   Gli israeliani dovrebbero riflettere bene sul fatto che la loro enorme superiorità militare tenderà a ridursi; che faranno quando non saranno più in grado di mantenere la macchina bellica attuale?
Quanto ai dirigenti palestinesi, dovrebbero aver capito da un pezzo che l'unica cosa che possono ottenere con i loro attacchi sono delle rappresaglie.   E se il loro scopo è quello di riportare la loro battaglia sulle prime pagine dei giornali internazionali, dovrebbero considerare che il numero di morti palestinesi necessario per raggiungere tale scopo sarà sempre più alto.   Ne vale pena?   Per ottenere cosa?   Se il loro scopo è vedere la dissoluzione di Israele è probabile che basti aspettare: tutti gli stati attuali finiranno col dissolversi e le società con il riorganizzarsi diversamente.   Se il loro scopo fosse invece quello di vedere sorgere uno stato palestinese, ogni giorno che passa ed ogni razzo che parte allontana, anziché avvicinare tale prospettiva.








lunedì 7 luglio 2014

Storia del XX secolo in (pochi) numeri.

Più volte ho sottolineato la situazione di overshoot ecologico della nostra specie. Nel farlo ho spesso usato i dati di Vaclav Smil sulle biomasse dei vertebrati di terra, e utilizzando altri dati anche di quelli marini. Ho sempre detto che non mi era riuscito bene di capire la fonte da cui Smil traeva le sue stime, ma le divulgavo per l'autorevolezza del grande studioso di energetica ed ecologia. Nel 2011 Smil ha pubblicato un articolo, disponibile in rete per il download gratuito, che conferma i dati e ne cita la fonte. Inoltre l'articolo opera una ricostruzione storica dell'evoluzione delle biomasse su cui vale la pena di riflettere, perché ci permette di porre in prospettiva storica l'espansione umana nel XX secolo. Le percentuali stimate variano poco rispetto a quanto avevo riportato in passato.

Biomassa delle popolazioni di vertebrati presenti sulle terre emerse in miliardi di tonnellate di carbonio (Gt C).
La storia umana è dunque una storia di straordinario e repentino successo ecologico giocato a scapito degli animali selvatici la cui quantità è diminuita in termini relativi e assoluti. Ma anche a scapito di una moltitudine di animali domestici (bovini, ovini e suini) ridotti peggio degli schiavi, fatti vivere spesso in condizioni inaccettabili da qualsiasi punto di vista, le cui vite miserande sono tenute nascoste negli allevamenti industriali e terminate con metodi osceni nei mattatoi.
A scapito anche della vegetazione come si vede dai dati riportati nella tabella che segue (adattata dal solito articolo di Smil) nella quale si riporta anche la crescita della popolazione umana e, quella parallela, dell'energia pro-capite a partire da 5000 anni fa.


Anno
Popolazione
(milioni)
Energia
(GJ/capite)
Speranza di vita (anni)
Fitomassa globale (Gt C)
5000 anni fa
20
< 3
20
> 1000
0
200
< 5
< 25
1000
1000
300
< 10
< 30
900
1800
900
23
35
750
1900
1600
27
40
660
2000
6100
75
67
550


Come si vede la progressiva distruzione della massa vegetale ha un'accelerazione a partire dal XIX secolo: in due secoli e mezzo la fitomassa è stata ridotta di una quantità pari a quella distrutta nel millennio precedente. L'era delle fonti energetiche fossili (che sono essenzialmente fitomassa prodotta dalla fotosintesi centinaia di milioni di anni fa) non ha portato bene né agli animali né alle piante, ma ha favorito l'espansione incontrollata di un'unica specie, la nostra, che ancora non ha  individualmente, socialmente e culturalmente capito che non può vivere senza le altre specie.