lunedì 29 dicembre 2014

Litanie catastrofiste e picchiste. Un genere letterario.

Spesso si sente sostenere, anche da parte di valenti scienziati, che il problema ecologico creato dall’uomo ha radici antiche. Lo abbiamo detto spesso, l’uomo ha sviluppato un livello di opportunismo ecologico che gli ha permesso di colonizzare praticamente qualsiasi ambiente naturale dal deserto del Shara alle zone perennemente ghiacciate a nord del circolo polare artico.
Facendo questo ha sconvolto gli equilibri ecologici sia per quanto riguarda la fauna che la flora. Causando estinzioni di massa della macrofauna e sconvolgimenti botanici anche in epoco preistorica. Con l’avvento della pastorizia e ancor più dell’agricoltura ha iniziato a modificare i cicli biochimici e in particolare la chimica dell’atmosfera. Tutto vero, ma non si può fingere di ignorare che in assenza del flusso di energia abbondante e facilmente raggiungibile (e dunque economicamente a buon mercato) il tasso di crescita della popolazione sarebbe rimasto a livelli di raddoppio di diversi secoli. Questo significa che se sulla Terra non si fossero verificate le condizioni per la formazione dei combustibili fossili, estrapolando il tasso di crescita pre-fossili (0,1%), la stessa popolazione attuale si sarebbe raggiunta oltre il 4000 d.C. Va bene, le estrapolazioni non sono mai concesse. E infatti non ne facciamo una questione d’onore, vogliamo solo dire che, indicativamente, il tasso di crescita demografico umano prima della scoperta dell'uso dei combustibili fossili, cioè con la rivoluzione industriale, era sostenibile nell’ordine del millennio e oltre. Ovviamente è stato anche un bene trovare questa straordinaria risorsa perché è noto che la stragrande maggioranza degli uomini fino alla rivoluzione industriale vivevano in condizioni miserevoli. Il problema è che abbiamo trasformato questa risorsa in rifiuti di varia natura e popolazione. Invece di estendere un benessere ragionevole ad un numero ragionevole di uomini ci siamo comportati come una colonia di batteri in un disco di Petri.

Di fronte a questi fatti è evidente che gli elefanti nella stanza sono due: popolazione e consumi (di risorse). Non solo la popolazione, non solo i consumi. L'ho sempre sostenuto e continuerò a farlo.

Dispiace vedere che gli amici e compagni di Rientrodolce oggi classifichino chi si occupa delle risorse e dei loro consumi, e degli effetti che questi hanno sulla popolazione, in pratica ASPO, come facenti parte del "genere letterario catastrofista- picchista". Un simpatico colpetto molto radical chic portato nell'ultimo numero di Overshoot, bollettino periodico dell'associazione (che, peraltro ha fondato il sottoscritto quando era segretatio di Rientrodolce). 

Il passaggio che non mi è piaciuto è questo:

Qui non si vuole recitare le litanie delle rovinose catastrofi ecologiche conseguenze delle attività umane in ogni parte del globo. Esiste già un vero genere letterario chiamato catastrofista o picchista, declinato sia in qualità che in quantità.
 
A parte il colpetto inutile e un po' stupido il numero 7 di Overshoot è consigliabile e tutto da leggere.

Dispiace ancora di più il non aver ricevuto risposta dopo aver criticato il passaggio in questione nella mail list dell'associazione.

Su quale base si fonda questo disprezzo malcelato dietro il velo di ironia?

Sul fatto, credo, che esiste un argomento tabù, quello della sovrappopolazione, e un argomento ampiamente dibattuto, quello delle risorse e dei loro vari picchi. Argomento debole perché i due temi si rinforzano a vicenda. E' ovvio che esiste uno scotoma enorme di molti, quasi tutti, gli ambientalisti nei confronti del tema demografico, ciò non toglie che rispondere ad uno scotoma con un altro non aiuta in nessun modo. Serve solo a erigere muri dove si dovrebbe sviluppare il confronto. E il confronto, di solito, non si fa partire con il complesso di superiorità. E soprattutto non definendo il lavoro di chi si occupa di picco delle risorse un genere letterario che recita litanie sulle catastrofi ecologiche.

Un'uscita veramente infelice.

Luca Pardi.

giovedì 18 dicembre 2014

Crescisti contro decrescisti: e se avessero ragione entrambi?

di Jacopo Simonetta.

Mentre l’uscita dalla crisi sfuma in un futuro sempre più leggendario, ribolle lo scontro ideologico e verbale fra coloro che perseguono un rapido ritorno alla “crescita” e coloro che, viceversa , predicano una qualche forma di  “decrescita”.
Due campi quanto mai vari, spesso con posizioni nettamente diversificate al loro interno.   Tuttavia vi sono alcuni punti condivisi dalla maggior parte di coloro che perseguono l’una o l’altra di queste strategie.
Ben inteso, lo scopo qui non è quello di tentare una critica a tali posizioni, bensì quello di far rilevare che alcune delle conclusioni sostenute nei campi avversi sono in realtà perfettamente compatibili fra loro.   Guarda caso le più sgradevoli da udire e pensare, ma anche quelle che meglio descrivono lo scenario più probabile nel prossimo futuro.   In ogni caso, la direzione verso cui le classi dirigenti di tutto il mondo stanno dirigendo il pianeta.

Schematizzando all'estremo,  alcune delle posizioni sostenute dai fautori della crescita  si possono così riassumere:

1 - La crescita economica è l’unica medicina efficace contro la crisi economica, l’esplosione del debito e la miseria.
2 - La decrescita comporta necessariamente una riduzione nella produzione di beni e servizi che ridurrebbe  il benessere,  generando una spirale deflattiva potenzialmente devastante.   Come la crescita è un sistema a retroazione positiva, lo è anche la decrescita; il rischio di uno sprofondamento esponenziale delle attività economiche è quindi molto concreto.
3 – L’attuale economia riesce a mantenere oltre 7 miliardi di persone, la maggioranza delle quali neanche troppo male ed un miliardo circa decisamente bene.   Un’economia globale in decrescita non potrebbe fare altrettanto.
4 - Un paese che optasse per decrescere si porrebbe alla mercé dei suoi vicini:   potere economico, politico e militare dipendono direttamente dalla crescita.
5 - La crescita economica indefinita o, perlomeno ancora per molto tempo, è possibile perché il progresso tecnologico aumenta costantemente l’efficienza con cui possiamo sfruttare le risorse.   Inoltre, l’aumento dell’efficienza produttiva ed il progresso consentono di ridurre gli impatti ambientali.   Anzi, solo una robusta crescita economica può rendere disponibili i finanziamenti necessari per gli interventi di tutela ambientale (riduzione delle emissioni clima-alteranti, bonifica di siti contaminati, parchi e riserve naturali, ecc.).
6 – L’economia globalizzata è l’unica che può fornire beni e servizi del tipo attualmente corrente e da molti ritenuti un diritto.   Ad esempio cure oncologiche, assistenza pensionistica, ricerca e sviluppo, prodotti tecnologici, internet, soccorsi internazionali in caso di calamità e molti altri.

Sull'altro lato della barricata, le posizioni sono ancor più variegate, ma vi è un largo consenso su alcuni punti:

A - La crescita economica è la causa della crescita demografica e dei consumi che hanno portato l’umanità oltre la capacità di carico del pianeta.
B - La decrescita è l’unica strategia possibile in un mondo sovrappopolato e sovra sfruttato.   Ogni ulteriore crescita economica e demografica sarebbe catastrofica, ma anche il mantenimento dei livelli attuali non è sostenibile.
C – Gli attuali livelli di produzione agricola ed industriale sono possibili solo grazie alla disponibilità di quantità pressoché illimitate di energia altamente concentrata e molto a buon mercato.   Una situazione storicamente anomala destinata a scomparire con il peggioramento qualitativo delle risorse sfruttate.
D - Un paese che optasse per la decrescita si troverebbe avvantaggiato rispetto agli altri in quanto pre-adattato all'inevitabile periodo di scarsezza prossimo venturo.   Anzi, probabilmente già iniziato.
E - Il progresso tecnologico è una concausa della nostra situazione.   Aumentando l’efficienza con cui le risorse vengono sfruttate, ne provoca un maggiore e non un minore depauperamento.
F - L’aumento sia della produzione di beni e servizi che dell’accumulo e conservazione di informazione comportano inevitabilmente una crescente dissipazione di energia e dunque di entropia.   In ultima analisi, la Terra non sta morendo per carenza di risorse, ma per eccesso di entropia (Global Warming, Mass extinction, epidemic riots, ecc. ne sono solo alcuni degli effetti).
G – L’economia globalizzata si disintegrerà man mano che si ridurrà il  flusso di energia che la ha generata, organizzare economie locali saldamente radicate sul territorio è l’unica risposta possibile.

Due posizioni razionali e coerenti, ma inconciliabili.   Così almeno pare, ma se entrambi avessero ragione al 50%?   Osservando bene, vedremo che alcune delle proposizioni sopra riportate sono reciprocamente incompatibili, ma altre no.   Facciamo dunque l’esperimento di sceglierne 3 per ogni elenco e metterle insieme:

A - La crescita economica è la causa della crescita demografica e dei consumi che hanno portato l’umanità oltre la capacità di carico del pianeta.
2 - La decrescita comporta necessariamente una riduzione nella produzione di beni e servizi che ridurrebbe  il benessere,  generando una spirale deflattiva potenzialmente devastante.   Come la crescita è un sistema a retroazione positiva, lo è anche la decrescita; il rischio di uno sprofondamento esponenziale delle attività economiche è quindi molto concreto.
C – Gli attuali livelli di produzione agricola ed industriale sono possibili solo grazie alla disponibilità di quantità pressoché illimitate di energia altamente concentrata e molto a buon mercato.   Una situazione storicamente anomala destinata a scomparire con il peggioramento qualitativo delle risorse sfruttate.
4 - Un paese che optasse per decrescere si porrebbe alla mercé dei suoi vicini:   potere economico, politico e militare dipendono direttamente dalla crescita.
F - L’aumento sia della produzione di beni e servizi che dell’accumulo e conservazione di informazione comportano inevitabilmente una crescente dissipazione di energia e dunque di entropia.   In ultima analisi, la Terra non sta morendo per carenza di risorse, ma per eccesso di entropia (Global Warming, Mass extinction, epidemic riots, ecc. ne sono solo alcuni degli effetti).
6 – L’economia globalizzata è l’unica che può fornire beni e servizi del tipo attualmente corrente e da molti ritenuti un diritto.   Ad esempio cure oncologiche, assistenza pensionistica, ricerca e sviluppo, prodotti tecnologici, internet, soccorsi internazionali in caso di calamità e molti altri.
G – L’economia globalizzata si disintegrerà man mano che si ridurrà il  flusso di energia che la ha generata, organizzare economie locali saldamente radicate sul territorio è l’unica risposta possibile.

OK, è solo un esercizio a tavolino, nulla di più.   Ma direi  che basti eliminare l’idea che ci debba necessariamente essere un modo per salvare la nostra pelle ed il nostro benessere perché il quadro diventi  molto più chiaro e coerente da entrambe le prospettive.

“Meditate gente, meditate”.


giovedì 4 dicembre 2014

Proiezioni ONU per il 2100. 11 miliardi di persone?

Di Paul Chefurka

L'ONU ha prodotto e pubblicato recentemente un nuovo rapporto sulla popolazione. In esso viene fornita una nuova stima della popolazione umana alla fine del secolo: 11 miliardi.




11 miliardi di persone.
Undici miliardi di persone
11,000,000,000 persone.

Indipendentemente da come lo scrivi si tratta di un numero esorbitante di piedi, mani e bocche. Ma naturalmente la storia non si finisce li, vero? Questo numero scandaloso non rappresenta semplicemente corpi umani che occupano ogni possibile nicchia ecologica sul pianeta. Nascosto dietro di esso c'è l'impatto che stiamo avendo sulla geochimica e la biosfera del pianeta e come questo impatto continua ad accellerare man mano che diventiamo più numerosi e più ricchi.

Questa nota considera due aspetti di questa crescita: il nostro impatto sulla fauna selvatica del pianeta e sul nostro effetto sulla sua atmosfera.

Fauna selvatica.

Abbiamo già un impatto devastante sulla fauna selvatica del pianeta. Secondo un recente rapporto del WWF dal 1970 abbiamo letteralmente estirpato il 40% dei vertebrati terrestri selvatici. E. secondo lo studio di Vaclav Smil intitolato: “Harvesting the biosphere” (mietere la biosfera), l'insieme della biomassa umana e di quella degli animali domestici è cresciuta e quella dei vertebrati selvatici è diminuita.

Ho usato la stima di Smil delle biomasse nel 1900 e nel 2000 insieme ai nuovi numeri dell'ONU per stimare l'ammontare globale delle biomasse umana e degli animali domestici e selvatici nell'anno 10.000 aC (diecimila avanti Cristo) e nel 2100. Questo grafico mi ha perfino stupito la prima volta che l'ho prodotto.



Date questo insieme di assunzioni nel 2100 la sola vita animale sul pianeta (qui si parla solo di vertebrati. NdT) saranno gli uomini e gli animali che gli forniscono il cibo (bovini, ovini, suini, equini, pollame) e compagnia (cani, gatti ecc).

Sono necessarie due parole di spiegazione riguardanti la linea indicata come Capacità di Carico nel grafico.

Per prima cosa la linea è fissata al valore della biomassa dei vertebrati terrestri nel 10.000 aC. Ho scelto così perché a quel punto la Terra supportava tutti i possibili tipi di vita animale prima dell'intervento dell'attività umana. La crescita della biomassa oltre quel limite di 200 milioni di tonnellate è stato determinato dall'uomo. Abbiamo usato tecnologie di molti tipi e una quantità di energia continuamente crescente per trasformare la superficie del pianeta in un habita per gli uomini e gli animali domestici. E la fauna selvatica è stata progressivamente espulsa dagli ecosistemi così trasformati.

In secondo luogo ho indicato la Capacità di Carico come una linea orizzontale per semplice convenienza. In realtà essa declina nel tempo. Questo perchè la nostra presenza ha gradualmente ridotto la Capacità di Carico del pianetà attraverso le attività di distruzione degli habitat, l'esaurimento del suolo e delle acque sotterranee, l'inquinamento e il cambiamento climatico. Non possiamo dire quale sia oggi la Capacità di Carico, ma si può scommettere con certezza che se tutti gli umani e gli animali domestici si volatilizzassero domani, a causa dei danni subiti la biosfera non potrebbe supportare i 200 milioni di tonnellate di biomassa selvatica di 12.000 anni fa. E ci vorrebbero probabilmente millenni per rigenerare la Capacità di Carico precedente

Il cambiamento climatico

L'altra preoccupazione per un tale aumento della popolazione è, ovviamente, il cambiamento climatico. Le persone usano energia. Le persone che vivono nelle società avanza usano molta energia. Ad una prima approssimazione, i poveri, che vogliono diventare ricchi lo fanno aumentando il loro consumo energetico. I combustibili fossili forniscono l'87% dell'energia globale, una proporzione che non è migliorata negli ultimi 20 anni. Presi insieme questi fatti implicano che le emissioni future di CO2 resteranno almeno le stesse di quelle attuali. Realisticamente queste invece aumenteranno man mano che le persone più povere del mondo lotteranno per innalzare il loro reddito oltre i 2 $ al giorno.


Il probabile effetto di 11 miliardi di persone sarà un raddoppio delle emissioni attuali:



Mentre le emissioni di CO2 aumentano, aumenta la concentrazione atmosferica di gas serra, oltre le 400 parti per milione attuali fino a 650 ppm alla fine del secolo.



Cosa significa tale concentrazione di gas serra per il clima globale? Secondo un recente seminario del Dott. David Wasdell, il risultato sarebbe una temperatura di equilibrio fino a 10 gradi Celsius più alta di quella che era appena duecento anni fa. Oggi l'aumento è stato di appena 0,8 C e abbiamo alterato il Jet Stream Polare. L'effetto di un aumento di 10 C sarebbe inimmaginabile. Si tratterebbe inequivocabilmente un aumento di temperatura tale da determinare un'estinzione di massa globale.

Conclusioni

Dunque, vi sento dire, se qualcosa è impossibile- come questo scenario sembrerebbe- non si verificherà. Qualcosa interverrà inevitabilmente ad arrestare questa traiettoria BAU (Business As Usual). Sono d'accordo con voi.

Una delle principali caratteristiche di un grande e complesso sistema come la nostra civilizzazione planetaria è la imprevedibilità delle sue modalità di collasso. In parole povere, noi sappiamo che qualcosa si romperà, ma non possiamo dire cosa, dove e quando. Al momento i nostri soldi sono in una fase di collasso economico innescato dal collasso del sistema finanziario.

Una cosa sembra chiara. Lo stato finale che ho descritto NON si verificherà. Al momento in cui il 21simo secolo esalerà l'ultimo respiro, il mondo non conterrà 11 miliardi di persone; non emetteremo 70 miliardi di tonnellate di CO2 per anno; e i livelli di CO2 non saranno di 650 ppm. In qualche momento fra adesso ed allora o le forze della natura o quelle dell'uomo interromperanno la musica e Homo sapiens si troverà a cercare una sedia ancora libera.

domenica 19 ottobre 2014

KRUGMAN: I Limiti della Crescita erano tutta fuffa, la prova è che i fatti gli danno ragione!

Di Jacopo Simonetta



    Sull'assegnazione dei premi Nobel spesso sorgono polemiche.   Quelli per la pace sono sicuramente i più contestati, ma subito dopo vengono quelli per l’economia, spesso attribuiti a persone sicuramente colte e molto intelligenti, eppure capaci di scrivere cose a dir poco strane.
Per spiegarmi meglio, porterò ad esempio due fra i molti articoli che nientepopodimenoché Paul Krugman scrive per le maggiori testate del mondo (nella fattispecie The New Youk Times).
Nel primo,  “Limiti della crescita e roba simile” (22 Aprile 2008) l’illustre accademico afferma che il celeberrimo studio del gruppo dei Meadows è notoriamente carta straccia, ma anziché argomentare la sua affermazione, parla di un precedente modello che sarebbe risultato “spazzatura in ingresso e spazzatura in uscita” ; anche in questo caso senza spiegazione o esemplificazione alcuna, ma semplicemente perché l’autore di tale articolo era un ingegnere e non un economista.   In sintesi: ognuno coltivi il suo orto senza ficcanasare in quello del vicino che fa brutta figura.
  Ma il livore fra colleghi fa parte dell’etologia accademica da sempre; nessun problema.
 La cosa sorprendente viene nel seguito dove, a titolo di esempio di un lavoro viceversa molto serio,  cita un ponderoso studio di Nordhaus sui costi delle energie alternative al petrolio (rinnovabili e non), concludendo che, nei decenni, tutte le previsioni tanto economiche che tecnologiche si sono rivelate largamente sbagliate per eccesso di ottimismo.   Tant'è che gli anni 2000 si stanno dimostrando molto diversi da come ce li eravamo immaginati 20 o 30 anni fa.   Il progresso non si è fermato, dice Krugman, ma ha subito un brusco rallentamento che risulta evidente confrontando quanto avvenuto nel periodo 1908 – 1958 e quanto avvenuto, invece, fra il 1958 ed il 2008.
Ma, mi domando, questa non è la prova provata che la legge dei ritorni decrescenti si applica all'economia globale, esattamente come hanno sempre sostenuto  i Meadows, il loro precursori ed i loro continuatori?
Non pago di tale paradosso, Krugman conclude con una frase a dir poco stupefacente:
“Insomma, anche se la i Limiti della Crescita e roba simile degli anni ’70 erano un pasticcio, la storia dell’energia e della tecnologia non supporta davvero un grande ottimismo.”
Che a me pare come dire: “Malgrado Tizio avesse torto su tutto, i fatti gli danno ragione”.    O no?
Poiché potrebbe anche trattarsi di un  malinteso, ho letto un secondo articolo, molto più recente, sullo stesso argomento: “Navigare lentamente ed i presunti Limiti della Crescita” (7 Ottobre 2014) in cui Krugman spiega che negli Stati Uniti si sta formando una stravagante coalizione politica fra tre soggetti molti diversi: - Destra repubblicana, ostile per principio a qualunque azione in favore del clima; - Sinistra storica, ostile per principio al sistema capitalista; - “Scienziati duri” che pensano di essere più furbi degli economisti.    Per inciso, non una parola sul fatto che ci sono anche degli economisti (pochi) che la pensano come gli “scienziati duri”.
Questa eterogenea accozzaglia avrebbe, pare, lo scopo comune di convincere il mondo che la crescita del PIL e quella delle emissioni clima-alteranti sono necessariamente accoppiate.
A dimostrazione di quanto costoro si sbaglino, il Nobel cita l’esempio delle  petroliere che, per ridurre i costi, hanno trovato una facile parata: rallentare le navi.   Di sicuro non lo avreste mai immaginato, ma diminuendo la velocità i consumi diminuiscono in modo più che lineare!   Guarda caso l’argomento usato dai perfidi “hard scientists” che hanno sempre detto di non accelerare troppo perché i consumi salgono in misura più che lineare.    Insomma, qualcosa del tipo “Tizio sbaglia a dire che non bisogna accelerare, in realtà bisogna rallentare”.   O capisco molto male l’eccellente prosa di Krugman?
Non pago di ciò, il nostro prosegue ammettendo che in questo modo la quantità di petrolio trasportata diminuisce e con essa il PIL, ma niente paura.  Basta costruire delle navi in più da mettere a navigare pian piano sulle stesse rotte et voilà: abbiamo ridotto i consumi e le emissioni, facendo nel contempo crescere il PIL.  (?!?)   Alla faccia dei sofisticati pensatori che non conoscono i processi produttivi reali, l’energia non è che un input fra i tanti ed è quindi sostituibile; in questo caso da più capitale e più lavoro a fronte di meno nafta.
 Qualche “hard scientist” potrebbe forse porre domande tipo: Per costruire e manutenzionare le navi non si consuma energia?   Più navi in mare non consumeranno più nafta?   A chi dovrebbero portare più petrolio, visto che tutti ne stanno comprando meno, tanto che i petrolieri devono rallentare le navi che fino a ieri avevano voluto più veloci?    Ma questioni di tanta futilità non vengono nemmeno prese in considerazione e si conclude che questo semplice esempio dimostra incontrovertibilmente come  la crescita economica possa benissimo andare a braccetto con la riduzione dei consumi.   E, anziché spiegarci come mai questo, almeno finora, non sia mai accaduto, Krugman conclude con la seguente frase: “ Se pensate di aver trovato un argomento profondo che dimostra che questo è impossibile, significa che vi siete intrappolati da soli con le vostre parole”.    Cioè: “Chi la pensa diverso da me sbaglia perché io ho ragione.”
A questo punto mi sorge una riflessione.    In quattro righe su di un quotidiano costui liquida decenni di lavoro di teste del calibro di Jevons, Georgescu-Roentgen, i coniugi Meadows, Odum, Nash, Daly, Roddier e tantissimi altri; per la maggior parte “hard scientists” (chissà perché?), ma anche  economisti.
Ma anche io che sono un pinco pallino qualunque mi permetto di irridere le opinioni di un premio Nobel su di un piccolo blog.   Chi di noi due pecca maggiormente di orgoglio?

martedì 14 ottobre 2014

Genova per noi ....

... che stiamo in mezzo alla campagna
e abbiamo il sole in piazza pochi giorni
e il resto è pioggia che ci bagna.

Queste le parole di una canzone di Paolo Conte resa popolare da Bruno Lauzi negli anni '70. Evocativa. C'è Genova, c'è la pioggia che bagna noi, ma porta via loro. Con questo motivo in testa in questi giorni mi chiedevo come sia possibile il ripetersi di queste catastrofi e al tempo stesso il perdurare di un modo di affrontarle totalmente inadeguato. Da parte di tutti, non solo dei politici e dei tecnici, ma anche da parte dell'uomo qualunque. Quello con cui si discute al bar o in treno.

Cosa rappresenta Genova oggi?

Quello che rappresentano tutte le altre catastrofi climatiche che avvengono con frequenza sempre maggiore da diversi anni a questa parte. Genova ci ricorda oggi che prima ci sono stati nubifragi seguiti da inondazioni a Imola e nel Gargano (2 morti) in settembre, Refrontolo in provincia di Treviso il 2 agosto (4 morti), in privinvia di Ancona (3 morti) in maggio, in provincia di Pisa e a Modena (1 morto) a gennaio. In Sardegna con 18 morti nel novembre del 2013. Nel 2012 c'era stata la bassa Maremma toscana (6 morti) e nello stesso periodo altre alluvioni in provincia di Massa Carrara (1 morto) e Orvieto.Nel 2011 nella provincia di Messina (3 morti) e sempre quell'anno, in novembre, di nuovo Genova (6 morti). Il 25 ottobre del 2011 nelle Cinque Terre, Val di Vara e Lunigiana (13 morti). In Piemonte nel 2009 ci furono 23 morti e 11 dispersi molte migliaia di sfollati. Fino a Sarno nel 1998 con 159 morti. Si potrebbe continuare il conteggio. Gli eventi sono presi da una lista impressionante che ho trovato su una lista delle inondazioni in Italia su Wikipedia. E magari non è completa.

Si dovrebbe continuare riportando le catastrofi climatiche nel Mondo, spesso molto più mortifere di quelle che abbiamo sofferto in Italia. Ne vengono riportate in tutto il mondo: Australia nel 2012 e nel 2013, in Europa con lo straripamento di grandi fiumi grandi e piccoli, negli Stati Uniti, in Cina e nel subcontinente indiano.

Cosa hanno in comune tutte queste catastrofi?
1) L'aggravarsi degli effetti del riscaldamento climatico causato dall'uomo, con i fenomeni estremi che aumentano di intensità e frequenza
2) Il fatto che questi fenomeni colpiscono in territorio profondamente modificato dall'urbanizzazione e dalla trasformazione dei biomi naturali per scopi dettati dalle necessità umane, agricoltura, pascolo, industrializzazione, canalizzazioni ecc.
3) In alcune parti del mondo (e in particolare da noi in Italia) l'incuria nella gestione del territorio.
4) La lentezza ad intervenire degli Stati e degli Enti preposti a causa di una crescente complessificazione istituzionale.

Per quanto riguarda quest'ultimo punto il caso di Genova è tipico. La complessità dei meccanismi necessari per far partire i lavori di riassetto è tale che ci vogliono anni per prendere una decisione che alla fine non viene presa. Tutti i passaggi che hanno finito per rendere il sistema ingestibile sono stati probabilmente introdotti a fin di bene per garantire la libertà di impresa, la trasparenza degli appalti, l'efficienza degli interventi, il controllo sui flussi di denaro ecc, ecc ma alla fine bloccano tutto. E' una legge dei sistemi complessi l'aumento di complessità è un modo di risolvere i problemi, fino ad un certo punto. Superata una certa soglia l'effetto di ulteriore complessificazione è controproducente, ma a quel punto il sistema non può più tornare indietro e, generalmente, si ha una rapida semplificazione involontaria, cioè un collasso. Il Joseph Tainter ha formulato questa legge dei ritorni decrescenti della complessità e l'ha applicata in diversi contesti, dalla caduta dell'Impero Romano all'incidente della Deep Water Horizon nel Golfo del Messico. E' una legge che sia applica sia alle tecnologie, che alle istituzioni.

Detto questo non ci dobbiamo fossilizzare solo osulle cause prossime, quelle indicate nel punti 3) e 4), ma riflettere informati sulle cause più remote la 1) e la 2) che insieme sono a loro volta l'effetto di un overshoot della nostra specie data da esplosione demografica e consumismo. Generalmente nel dibattito politico ci si ferma alle cause prossime ed è tutto un proliferare di accuse incrociate senza grossi risultati.

Sarebbe invece il momento di fermarsi a riflettere sul destino della nostra società nel suo complesso, sulla sua sostenibilità ecologica, energetica e sociale.
Certo è più facile prendersela con Renzi perché non ha fatto qualcosa in tempo, con Burlando perché si è parato il culo piuttosto che prendersi delle responsabilità, con le lungaggini della giustizia, con il bizantismo delle procedure, con il sistema delle gare di appalto. Tutte cose dove i più dotati potranno sfoggiare una conoscenza tecnica tanto approfondita quanto inutile. Alla fine ci ritroveremo di nuovo a guardare sbigottiti altre strade trasformate in fiumi di fango, altri mucchi di automobili, altri funerali. Ognuno con le proprie certezze.

Cosa potrebbe succedere se invece nell'opinione pubblica si cominciasse a considerare altro? E' possibile vivere su un territorio con una popolazione continuamente crescente? Non vi fate ingannare la popolazione italiana non è in calo e se lo è (perché poi nessuno ha realmente i numeri esatti) lo è in misura irrilevante rispetto all'impatto ambientale che essa ha sul territorio. E' possibile continuare a consumare materia ed energia nel modo in cui siamo abituati? Ed è possibile fare questo mentre altri popoli che contano miliardi di altri umani vogliono entrare a far parte del banchetto? Possono gli ecosistemi terrestri sopportare altri decenni di crescita materiale di una singola specie? Ha senso continuare con il mantra della crescita economica quando è chiaro quanto il sole che il problema è la crescita dei consumi e della popolazione, cioè la crescita?

Ponendosi queste domande si potrebbe anche arrivare a farsi un idea delle cose che ciascuno di noi sia esso sindaco o presidente del consiglio, potrebbe e dovrebbe fare per evitare altri sbigottimenti funerei.

domenica 12 ottobre 2014

La vera causa e il capro espiatorio.

Quando si parla di crisi, sia di quella economica che di quella ecologica, ognuno ha una causa preferita. C'è la finanza predatoria, l'euro, le banche, la fed, i cinesi, gli immigranti (i nuovi barbari), i fondamentalisti islamici, le religioni monoteiste in genere, il capitalismo, il libero mercato, il mercato tout court, l'esplosione demografica, la decrescita demografica, l'anidride carbonica, i nitrati, i fosfati, il petrolio, il cambiamento climatico, l'allentamento dei vincoli morali nella società, l'educazione carente, le nuove tecnologie, la mancanza di innovazione, l'eccesso di tecnologia e la sua mancanza, i vincoli alla ricerca, la troppa libertà di ricerca, le disfunzioni dell'amministrazione, quelle del sistema giudiziario, l'eccesso di centralizzazione, l'eccesso di decentralizzazione. Una situazione che ricorda un po' l'enumerazione delle "cause storiche della caduta dell'Impero Romano d'occidente" che si contano a centinaia.
La scimmia e la capra.

In un mondo complesso non potrebbe essere diversamente. Ma il fatto che ciascuno insista su un aspetto particolare rivela la natura monodimensionale e lineare del nostro modo di vedere la realtà. Ogni scelta che facciamo di una particolare causa è una semplificazione tranquillizzante. E' il classico capro espiatorio. Il domidio economico, la scienza, la religione e tutte le altre cause elencate e molte altre, tutte brutte e cattive. Se solo potessimo liberarci di queste catene saremmo tutti bravi e buoni (e probabilmente anche belli) e collaboreremmo, liberi da ogni egoismo, per costruire finalmente il paradiso in terra (senza precluderci la possibilità di entrare poi in quello in cielo, il più tardi possibile).

Purtroppo non funziona e non ha mai funzionato. C'è qualcosa a monte, nell'hardware, di Homo sapiens. Lo ha evidenziato qualche giorno fa su facebook una mia amica musicista, ma con una solida formazione naturalistica (è possibile), riportando una citazione dell'etologo e primatologo Frans de Waal e attualizzandola.

Being both more systematically brutal than chimps and more empathetic than
bonobos, we are by far the most bipolar ape. Our societies are never completely peaceful, never completely competitive, never ruled by sheer selfishness, and never perfectly moral.

― Frans de Waa.
(Essendo più sistematicamente brutale degli scimpanzé, e più empatici dei bonobo, siamo la scimmia maggiormente bipolare. Le nostre società non sono mai completamente pacifiche ne mai completamente competitive, mai guidate dal puro egoismo e mai perfettamente morali).

E Flavia Barbacetto commentava.

"Mentre centinaia di operatori sanitari rischiano la propria vita per salvarne altre in Africa, un ragazzino di 14 anni giace sul letto di in un ospedale di Napoli dopo essere stato brutalmente seviziato da altri esseri umani. L'insolubile dicotomia che grava sulla nostra specie continua ogni giorno di più a lasciarmi attonita."

Ecco ora anche io ho la mia causa preferita. So dove sia, ma non so esattamente cosa sia.





sabato 4 ottobre 2014

Divergenza.

Mi sembra che ci sia una tendenza in atto alla divergenza delle opinioni e perciò alla radicalizzazione delle posizioni. Da una parte c'è chi vede lo svolgersi di tutte le catastrofi prevedibili e previste: il clima, la sesta estinzione di massa, altre catastrofi ambientali e socio-economiche tutte riconducibili ad un evento: il raggiungimento dei limiti biofisici della crescita umana, cioè l'overshoot, il superamento della capacità di carico, la tracimazione ecologica. Dall'altra parte ci sono coloro che perseguono la e credono nella ripresa del cammino plurisecolare di progresso e sviluppo della nostra specie, considerano la crisi attuale come una delle tante fasi di stasi cui seguirà, grazie all'innovazione tecnologica e politica, una nuova fase di crescita e sviluppo.

Pessimisti contro Ottimisti.



Nel mezzo vedo, in occidente una massa semiaddormentata di persone che affogano le loro angosce nelle residuali orge del consumismo (cfr IPOD6), nel mondo in via di sviluppo: una massa ancora più grande di formichine idealmente proiettate verso l'impossibile orgia consumista, nei paesi poveri una corsa al si salvi chi può, fra epidemie di Ebola, malnutrizione, miseria, e tentativi di migrazione, che spesso finiscono in fondo al mare, verso i paesi ancora ricchi.

I Pessimisti vedono il caos e la catastrofe avvicinarsi. Gli Ottimisti ribattono con il consueto sorrisino condiscendente che: si ci sono dei problemi, ma è sempre stato così, ed è una presunzione di ciascuna generazione lidea di vivere in un periodo eccezionale. Oltre a credere nell'esistenza della Terra Piatta e Infinita, un luogo nel quale quando si è sfruttato un'area ci si sposta e si comincia a sfruttarne un'altra, credono anche nella Storia Piatta. La realtà storica darebbe ragione alla presunzione di "tutte le generazioni" solo nel secolo scorso l'umanità ha vissuto un paio di catastrofi maggiori: la prima e la seconda guerra mondiale, e solo i nati dopo il 1945 in occidente possono dirsi indenni.
Il Pessimista elenca i segnali negativi, molti, l'Ottimista si butta sui tecnicismi. Il Pessimista parla di proiezioni e l'Ottimista ribatte con i dati attuali, l'unica cosa che conosce insieme a quelli del passato, e per lui il futuro è l'estrapolazione del passato dato che la Storia è piatta.

Non credo che ci sia un possibile punto d'incontro, una mediazione, possiamo fare tutti gli sforzi, ma le posizioni sono inconciliabili anche quando, e a me capita, si mantiene un livello di dibattito civile.

Gli Ottimisti hanno, nei confronti della massa, dormiente o freneticamente impegnata, un grande vantaggio: sono ottimisti. Hanno una narrativa vincente perché narcotizzante.

Purtroppo la capacità di reazione alla crisi che verrà (ah io mi colloco fra i pessimisti quindi do per scontato che si sia in una fase immediatamente precedente al collasso) dipende in gran parte dalla conoscenza dei problemi che la determinano, quelli che i Pessimisti continuano a ripetere da decenni. Non dipende, o dipende in minima parte, da una nuova esplosione di innovazione tecnologica che ci porterà a sostituire il petrolio con il sole e il vento, dipende da quanto sappiamo sul funzionamento degli ecosistemi terrestri e sugli effetti che su questi ha il metabolismo sociale ed economico umano.

Ma come fare per rendere questo sapere operativo? Come svegliare la massa narcotizzata? Io non ho una risposta perché vedo che anche i tentativi di coinvolgere le persone comuni in un processo virtuoso di transizione verso la sostenibilità, non mobilita che minoranze infime, e non modifica che in modo impercettibile la rotta del Titanic.

La risposta degli iper-pessimisti la conosco, è facile: "siamo fregati, aspettiamo il collasso", quindi me la potete risparmiare.

venerdì 26 settembre 2014

La missione impossibile

Archiviata la marcia per il Clima del 21 settembre cosa si può dire?
Chi l'ha organizzata ed è sceso per le strade la considera comprensibilmente un successo. A me 1 milione, o poco meno o poco più, a livello mondiale mi sembra sempre il solito "qualcosa per mille" che sono in grado di mobilitare le cosiddette battaglie ambientaliste a meno che non siano manifestazioni NIMBY (tutti sapete cosa vuol dire).

Evidentemente l'uomo continua ad essere quello descritto all'inizio de "I limiti dello sviluppo". La maggior parte di noi si occupa di cose che sono vicine nel tempo e nello spazio. Ciò che viene percepito lontano spazialmente o temporalmente ha un "tasso di sconto" molto penalizzante tanto da non avere valore qui ed ora.

Si fanno le marce per spingere i governi a spingere l'ONU a stringere un trattato fra centinaia di nazioni per limitare le emissioni di gas serra. Una missione impossibile. Ma non si fa nulla per spingere i governi a riflettere sulla possibilità di adottare un'agenda demografica in relazione alle risorse disponibili. Nessuno che chieda ai governi e ai parlamenti di riflettere sulla capacità di carico dei propri territori. O, se vogliamo, sulle possibili diverse capacità di carico che si possono prevedere in funzione di uno sviluppo tecnologico possibile e l'inevitabile progressivo declino della qualità di molte risorse essenziali. Dell'impronta ecologica rimane sempre e solo il Consumo e la Tecnologia. Quest'ultima spesso in posizione ambivalente, perché in quanto motore di efficienza riduce l'impatto, anche se ha storicamente aumentato i consumi. Mentre sul consumo la maggior parte degli ambientalisti ha una atteggiamento moralista riassunto nella definizione stessa della società consumista. 

La popolazione è, direbbero le persone uscite dalle scuole di studi sociali ed economici, un dato esogeno. Non modificabile. 

Si tratta di uno scotoma culturale che, quando viene evidenziato, provoca reazioni irritate o elucubrazioni giustificative da parte di persone con diversa ideologia, religione ed etnia. 



La natalità non si tocca. Per i cattolici c'è sicuramente il fatto che si va a sfruculiare il tabù del sesso. Per i liberali c'è il tabù dell'intromissione nelle libertà individuali, per i comunisti il mito della massa buona, intelligente e operosa, e in tempi recenti anche eco-sostenibile, che si genera dalla liberazione dall'odiato capitalismo. Per gli islamici estremisti c'è il bisogno, in mancanza di tecnologie adeguate, di combattere la jihad con la population womb (Cit. Arafat, che non era islamico, ma il concetto è chiaro). I mussulmani non estremisti, ed evoluti, sono, forse, i meno peggio perché non hanno il tabù cristiano della separazione fra piacere sessuale e procreazione. E poi ci sono i paesi di cultura confuciana che sono assai meglio su questo tema. Almeno lo hanno affrontato. Per qualche motivo, a me non del tutto chiaro, ho incontrato resistenze perfino da parte degli Atei Agnostici Razionalisti quando gli ho proposto un Malthus day. Malthus è anatemizzato per sempre da tutti.

Ma non dimentichiamoci che Malthus deve essere ricordato non perché le sue previsioni a breve sono risultate sbagliate, ma perché ha evocato la possibilità di un overshoot ecologico che, puntualmente, superata l'ubriacatura da combustibili fossili si sta ripresentando con gli interessi, sotto forma della stessa combinazione proposta da Malthus, popolazione vs risorse disponibili. 

martedì 16 settembre 2014

Ucraina e dintorni.

Jacopo Simonetta

La guerra provoca forti e spesso insane reazioni e quella in corso in Ucraina non fa eccezione.    Così, invece di sostenere le ragioni degli uni o degli altri, vorrei qui attirare l’attenzione su di una serie di aspetti ed implicazioni che la stampa tende a trascurare.   L’elenco non sarà certamente esaustivo, né si pretende di conoscere come davvero stiano le cose; tanto meno come si evolveranno.   Semplicemente, l’intento è di proporre degli argomenti di riflessione.
Premessa ad ogni ragionamento dovrebbe essere un dato fondamentale e totalmente ignoto: Come andranno a finire le cose sul campo?  
Personalmente, credo che sia realistico ipotizzare che questa fase acuta si concluderà su di una linea del “cessate il fuoco” che diventerà una frontiera di fatto, anche se mai formalmente riconosciuta.   Gli impatti di una tale situazione sul resto del mondo dipenderanno poi molto da quanto i vari governi coinvolti risulteranno dipendenti dai rispettivi partiti nazionalisti.   Potrebbe infatti risultare una situazione alla “georgiana” in cui, superata la fase acuta, si ristabiliscono relazioni quasi normali, perlomeno fra i paesi non direttamente coinvolti; oppure “alla coreana”, con un vero e proprio fronte di guerra, sia pure congelato a tempo indeterminato.
Molti altri sono gli scenari possibili, ma credo che qualcosa di questo tipo sia molto probabile e su questa ipotesi si basano le speculazioni che seguono.

Una prima considerazione che mi pare interessante è la seguente: la divisione dell’Ucraina in due parti, una legata alla Russia e l’altra all'Europa, era nell'aria fin dallo scioglimento dell’URSS ed avrebbe potuto essere una soluzione obbiettivamente ragionevole; perché dunque arrivare all'attuale situazione?   Ancora pochi mesi addietro Russia, Europa ed USA avrebbero probabilmente potuto imporla di comune accordo ad un governo ucraino che  ha ereditato da Yanukovich la situazione politico-economica peggiore possibile.
Si può discutere all'infinito sul perché questo non sia accaduto e su chi ne abbia la responsabilità maggiore, ma il fatto per me saliente è che una soluzione condivisa da quasi tutti (probabilmente anche in Ucraina) è definitivamente tramontata non tanto per la cosa in sé, quanto per i mezzi utilizzati per raggiungere tale scopo.   Mezzi che stanno ingabbiando tutti in un gioco delle parti sempre più vincolante.   Una situazione estremamente pericolosa perché facilmente può condurre i governi ad azioni molto più drammatiche di quelle inizialmente pianificate.
Un secondo gruppo di questioni è rappresentato da come questa crisi stia ridisegnando le mappe geopolitiche del mondo.
Da un lato abbiamo l’Europa che, fedelissima alla sua tradizione, si presenta all'ennesimo appuntamento con la storia divisa e sbandata.   In prima, grossolana approssimazione possiamo individuare quattro partiti: Il primo comprende soprattutto i paesi baltici, la Polonia, gli scandinavi e l’Inghilterra che propongono un intervento deciso, foss'anche militare.   Il secondo ha il suo vessillifero nella Germania, che vorrebbe in tutti i modi salvare i suoi ottimi rapporti commerciali con la Russia.   Il terzo comprende invece l’Ungheria (oltre a parte dell’opinione pubblica euro-occidentale) che tifa apertamente per Putin, sperando in una sua vittoria come prodromo di rischieramento dei paesi europei sotto l’egida del Cremlino.   Infine il quarto partito comprende paesi che, come l’Italia, vorrebbero dare la priorità agli interessi commerciali, ma non osano dirlo.
  Tutto ciò influenza, ovviamente, i rapporti fra i governi UE.   Negli anni scorsi la Germania, forte del suo prestigio politico e della sua forza economica, ha assunto una sorta di leadership informale in seno all’Eurogruppo, ma il degenerare delle situazione alle frontiere orientali dell’Unione ne stanno erodendo il prestigio e rinforzano i ranghi di coloro che sono insofferenti di tale primato e delle politiche che ne derivano.   Si giungerà ad un isolamento del governo Merkel,. ad un cambio di leadership e, dunque, di indirizzo politico dell’EU?   Possibile, ma comunque di limitata rilevanza globale poiché l’Europa ha perduto negli anni ’90 l’occasione per costruirsi una politica autonoma.   Man mano che le crisi (politiche e militari all'estero, economiche e sociali all'interno) si aggravano, gli spazi di manovra si restringono e la posta si alza.   Ne consegue che la cronica divisione degli europei e la loro completa dipendenza militare dagli USA ci stanno rapidamente riportando ad una situazione di totale sudditanza da una potenza straniera che, però, non è più l’America vincente della seconda metà del XX° secolo, bensì la potenza in declino della prima metà del XXI.   Di qui il desiderio di alcuni di abbandonare una barca che fa evidentemente acqua per saltare su di una che, affondata 30 anni fa, sta oggi cercando di recuperare parte dell’impero perduto con una politica di potenza finanziata perlopiù cedendo la più strategica delle sue risorse (l’energia) a paesi che ostacolano tale intento, pur non esitendo a finanziarlo.
Sul piano economico, conosciamo la melma “postpicco” in cui si dibatte l’Europa e certamente il peggioramento delle relazioni con la Russia non può che aggravare la situazione nel breve termine, ma sulla tanto temuta eventualità di un taglio delle forniture energetiche pesa il semplice fatto che l’economia russa dipende da quella europea ancor più di quanto quella europea non dipenda da quella russa.   Un fatto questo molto positivo perché, indubbiamente, rappresenta un freno per tutti gli attori coinvolti.
Un fatto curioso a questo proposito è che, mentre ha avuto molta eco l’offerta del tutto immaginaria degli USA di fornire all'Europa il gas attualmente comprato in Russia, pochissima eco ha ricevuto l’analoga proposta avanzata dall'Iran.   Una proposta questa difficile, ma certamente meno fantastica di quella americana.   Ma, soprattutto, una proposta che, incrociandosi con le trattative sul nucleare e con le vicende belliche in Medio Oriente, potrebbe contribuire a modificare molti degli equilibri-chiave storicamente consolidati.
Veniamo quindi agli USA che hanno sempre lavorato per indebolire la costruzione europea e che, in questi ultimi anni, hanno attaccato massicciamente la nostra moneta per sostenere la loro.   Di fronte al degradarsi della situazione in uno scacchiere che si credeva stabile, si trovano improvvisamente nella situazione di avere di nuovo bisogno degli europei.   Politici abili potrebbero sfruttare quest’opportunità, ma dubito che ce ne siano.   Indipendentemente da ciò, gli USA si trovano di fronte al fatto che non potranno affrontare gli enormi costi connessi con il mantenimento dello status di “unica iper-potenza mondiale” conquistato nel 1989 ancora per molto.   Naturalmente lo negano, ma lo sanno benissimo.   Solo che la loro scelta di un’alleanza strategica con la Cina si è rivelata un boomerang ed il colosso asiatico, adesso che si sente abbastanza sicuro del fatto suo e che  a sua volta è messo alle strette dagli effetti globali del “picco di tutto”, non nasconde più le sue mire imperialistiche.   Mire che, necessariamente, potranno essere soddisfatte solamente sottraendo “province” al fatiscente impero americano.
Di qui la strategia di Obama, tesa a spostare il fulcro dell’azione politico-militare americana in Asia; strategia messa a dura prova dall'esplodere contemporaneo della duplice crisi in Ucraina ed in Medio - Oriente (collegate fra loro tramite il possibile ruolo dell’Iran in entrambe)
E veniamo alla Russia.   Se da un lato l’opposizione filo-occidentale è stata praticamente silenziata dagli arresti degli anni scorsi e dall'attuale ondata di popolarità di Putin, dall'altro il presidente si trova oramai legato alle fazioni più fortemente nazionaliste dell’opinione pubblica.   Una situazione che al momento gli conferisce grande forza, ma che ne vincola moltissimo le possibilità di manovra.
Un altro fatto interessante è che, mentre smantella le organizzazioni filo-occidentali sul suo territorio, Putin sta attivamente cercando di ricreare una rete di gruppi politici a lui favorevoli in Europa.   Niente di nuovo, né di diverso da quello che fanno i paesi occidentali in Russia; la novità è semmai che, mentre tradizionalmente i sostenitori del Cremlino in occidente erano i partiti di matrice marxista, oggi il governo russo sta stringendo alleanze con partiti come lo Yobbik, Forza Nuova, Front National, Alba Dorata ecc.,  unici ospiti occidentali all'importante convegno promosso dal governo russo, guarda caso a Yalta.
Un altro dato su cui riflettere è che l’attuale crisi ucraina è nata dalla politica idiota di Yanukovich in merito all'adesione all'Unione Euroasiatica; progetto geopolitico su cui Putin aveva fondato tutta la sua strategia di lungo termine.   Ma all'Unione Euroasiatica per adesso hanno aderito solo due paesi: la Bielorussia ed il Kazakistan, i quali hanno però posto una serie di condizioni che il governo russo non deve aver gradito: in particolare la piena libertà di intrattenere qualsiasi rapporto commerciale con qualsiasi altro partner e possibilità di uscire dall'accordo; ma soprattutto l’esclusione dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud dal trattato (paesi che peraltro nessuna delle repubbliche ex-sovietiche ha riconosciuto, come del resto nessuna ha per ora riconosciuto l’annessione della Crimea).     Mentre la Bielorussia gioca il ruolo del mediatore politico e, soprattutto commerciale, fra Nour Sultan e Putin sono già volate reciproche minacce, neanche troppo velate.   Un fatto importante perché mentre la Bielorussia è un paese sfinito, come l’Ucraina, il Kazakistan sta cavalcando l’onda del suo petrolio scadente e costoso, ma pur sempre relativamente abbondante.
Un aspetto del puzzle che ci porta a considerare gli aspetti energetici della crisi.   Oltre alla citata questione delle forniture di gas all'Europa, si è data molta enfasi all'accordo di fornitura di gas siberiano alla Cina.   In realtà, dietro la fumata propagandistica per il momento c’è ben poco arrosto: i quantitativi sono minimi rispetto a quelli venduti in Europa e provengono da giacimenti comunque troppo lontani per raggiungere l’EU.   In effetti, era una trattativa già avviata e la crisi ucraina ha permesso ai cinesi di spuntare un prezzo migliore, mentre hai russi ha dato un buon argomento per la loro propaganda interna ed estera.
Rimane però vero che, in una prospettiva di medio periodo, la Cina potrebbe davvero diventare il mercato principale dell’energia russa, lasciando “al buio ed al freddo” un Europa sempre più avvitata fra crisi socio-economica, incapacità politica e  risorgere di nazionalismi.
Sarebbe un’impresa lunga e costosa, ma probabilmente possibile, soprattutto perché potrebbe fornire alla Cina la possibilità di giocare il ruolo di “terzo che gode fra i due litiganti”.   Infatti, una simile evenienza lascerebbe la Russia totalmente dipendente da un vicino che anziché un “un nano politico e gigante economico” in via di ridimensionamento, sarebbe una potenza imperiale emergente con concrete possibilità egemoniche sul buona parte del pianeta.   E’ vero che la crisi “postpicco” globale ha già segnato anche la Cina e che tale situazione non potrà che peggiorare, ma è anche vero che altri stanno facendo di tutto per accelerare il proprio declino, cosicché la posizione cinese potrebbe anche migliorare in rapporto alle altre potenze, almeno per un certo periodo.   E certamente satellitizzare la Russia potrebbe essere un’ottima carta per la Cina.   A questo proposito, viene da ricordare il fatto che poco più di un secolo fa la Cina fu facilmente soverchiata perché, certa della sua grande potenza storica, sottovalutò grossolanamente le capacità delle potenze allora emergenti.   Oggi alcuni fra i vincitori di allora stanno probabilmente facendo l’errore eguale e contrario ed i russi sono probabilmente fra questi.
  In conclusione, è presto per dire se tornerà una sorta di “Guerra Fredda, n.2”, ma di sicuro la frattura fra occidente e Russia c’è stata e probabilmente non sarà sanata presto; è anzi possibile che col tempo tenda ad allargarsi ancora.   Ciò cambierà gli equilibri e le alleanze a livello mondiale.   In occidente, probabilmente favorirà la crescita dei partiti di estrema destra e nazionalisti, ma potrebbe anche ricompattare buona parte dell’opinione pubblica moderata attorno ad un Patto Atlantico oggi quanto mai sbiadito.   In fondo, la paura di un nemico esterno (prima nazista e poi comunista) ha avuto un ruolo fondamentale nel compattare e far funzionare le democrazie occidentali per buona parte del XX secolo.    Un ottimista potrebbe anche spingersi a pensare che tale situazione potrebbe indurre europei ed americani ad abbracciare finalmente una decisa politica di riduzione dei consumi energetici e di sviluppo di energie rinnovabili effettivamente funzionali.   Un pessimista potrebbe invece pensare che la situazione indurrà i governi a lanciare anche in Europa avventure suicide come il fracking e simili, ma in ogni caso i progetti di sfruttamento commerciale dell’Artico subirebbero una brusca fermata ed almeno questa potrebbe essere una buona notizia.
  Inoltre, sarebbe la fine della globalizzazione, col il ridisegnarsi delle rotte commerciali e migratorie su basi principalmente politiche anziché esclusivamente commerciali.   Un terremoto che travolgerebbe molte imprese, ma che potrebbe anche aprire delle nicchie per attività economiche meno ciecamente distruttive di quelle oggi di moda.
  In sintesi, questa crisi sta indebolendo contemporaneamente l’Europa e la Russia a vantaggio di USA e Cina.   Se la situazione non si alleggerirà rapidamente, l’effetto principale sarà infatti che entrambi vedranno crescere la loro dipendenza da potenze “tutelari” sempre più disperatamente alla ricerca di risorse e di spazi politici da sfruttare per rallentare il proprio declino (USA) o per rilanciare la propria scalata all'egemonia globale (Cina).   Entrambi hanno già ampiamente dimostrato di essere dei validi alleati contro minacce provenienti da altri “imperi”, ma anche di non esitare a sacrificare le proprie provincie quando questo gli sia utile.    In altre parole, questa crisi indebolisce tutti a vantaggio del dipolo USA-Cina, due potenze divise su tutto, eppure visceralmente interdipendenti.
Chi vivrà vedrà.

domenica 7 settembre 2014

Pensierino della domenica.

Sentire la rassegna stampa ogni mattina conferma la mia opinione secondo cui le classi dirigenti politiche, imprenditoriali, sindacali, accademiche, culturali, etniche e religiose non hanno ancora capito in quale genere di crisi siamo. 

Mi rendo conto anche che la mia opinione non è né modesta né, tantomeno, umile. "Proprio te hai capito?". E' un problema che mi pongo ogni giorno davanti allo specchio. Il fatto lo spiega molto bene il passaggio di un libro che ho letto recentemente: "Natura in bancarotta" scritto da Wijkman e Rocktroem. Il secondo autore è un accademico svedese che da decenni si occupa di sostenibilità e ha fondato lo Stockholm Resilience Center, una istituzione interdisciplinare e transdisciplinare in cui si elabora strategie e visioni per un mondo sostenibile. 

Bene, Rockstroem ad un certo punto parla della difficoltà di trovare sia naturalisti che umanisti che abbiano una visione sistemica. Questa è, testualmente, il passaggio:

Da direttore di due organizzazioni che si occupano di sostenibilità e resilienza 
afferma: "devo faticare per trovare e assumere scienziati che comprendano appieno
le dimensioni sociali del loro lavoro, o economisti, politologi, antropologi, filosofi che capiscano appieno le dinamiche complesse del sistema biochimico del nostro pianeta.
Siamo ad un passaggio cruciale della storia dell'umanità: è ora di ammettere che la scienza, in base alla quale vengono prese molte delle decisioni che cambieranno il corso dello sviluppo umano, non si basa su soluzioni sistemiche."

La nostra società ha selezionato in funzione del grado di specializzazione. Negli anni cinquanta in un testo ormai dimenticato di futurologia ecologica e socioeconomica: "il futuro è già cominciato", Robert Jungk (L'autore anche del più noto "Lo stato Atomico") diceva che c'era bisogno di generalisti più che di specialisti. Da allora ad oggi solo lo specialismo è stato premiato. Forse non è colpa di nessuno, il sistema funziona bene finché i flussi di energia e materia dalla natura alla società sono facili e abbondanti e la natura è in grado di accogliere e metabolizzare senza grosse perturbazioni i rifiuti delle nostre attività. 

In un simile ambiente l'innovazione e lo sviluppo tecnologico incrementano efficacemente l'efficienza del sistema e i problemi, quando ci sono (e spesso ci sono) passano inosservati o possono essere trascurati.

Quando invece, come sta succedendo in questo inizio secolo, il flusso di energia e materia diventa viscoso e i cascami si accumulano nell'ambiente; come accade con la CO2 in atmosfera, i nitrati e i fosfati nel suolo e nei bacini idrici, la plastica nei giri oceanici, gli inquinanti tossici di origine sintetica nei suoli e negli organismi ecc, cresce il bisogno di una visione sistemica che è invece totalmente assente. Al tempo stesso la rincorsa tecnologica diventa sempre più inefficace a causa del noto (ma in certe circostanze ingnorato) principio dei rendimenti marginali decrescenti. Man mano che il sistema diventa più complesso trovare vie di uscita tecnologiche diventa più difficile e costoso. Il principio ha riscontri in ecologia, economia e termodinamica, ma nessuno ha il coraggio di tirare le somme: la tecnologia può ancora vincere qualche battaglia, ma ha perso la guerra.

La tecnologia si applica a migliorare l'efficienza dei sistemi, ma se il sistema è sbagliato aumentarne l'efficienza è inutile.
 
C'è un aggravante che riguarda le classi dirigenti, coloro che per ragioni di capacità e/o fortuna hanno ottenuto risultati eccelenti nell'ambiente culturale iperspecialistico che si è solidificato nei secoli scorsi, vengono chiamati a risolvere problemi di cui sono tanto all'oscuro quanto l'uomo della strada, con l'aggravante di essere dotati di un'autostima debordante che li rende ciechi rispetto a qualsiasi limite culturale possano avere. Un affare serio.

sabato 6 settembre 2014

Il paese degli elefanti.

Ho scritto questo libro per due motivi, il primo motivo, quello scatenante è la reazione nei confronti di coloro che vorrebbero far passare un interesse privato e circoscritto per un interesse generale. Qui parlo ovviamente dei vari agenti di public relations delle compagnie petrolifere a cominciare dall'ex presidente del consiglio Romano Prodi che in diversi interventi ha sostenuto che procedere ad estrarre (cioè a far estrarre dai suoi amici petrolieri) le ultime gocce di petrolio e le ultime bolle di gas nel nostro sottosuolo è di grande importanza strategica per l'economia del paese. La seconda ragione per cui ho scritto è che ad un certo punto, dopo un po' di anni che uno studia, o cerca di comunicare quello che ha studiato o si sente inutile. Quindi la querelle sulle riserve italiane è stata in fondo per me una scusa per parlare dei limiti delle risorse petrolifere e rinnovare il dibattito sulla base energetica della nostra società affermando che, come ha detto qualcuno, è meglio abbandonare il petrolio prima che lui abbandoni noi.

…dire che in Italia abbiamo quantità ingenti di idrocarburi, è come dire che l’Italia è il paese degli elefanti perché ci sono due elefanti allo zoo di Pistoia e altri 4 o 5 sparsi nei circhi. Non è così! E’ una frottola.

domenica 20 luglio 2014

Un film già visto tante volte, ma come andrà a finire?



Di Jacopo Simonetta.

Mentre fra Israele e Palestina si replica un tragico film già visto chissà quante volte, sempre uguale, anche sulla stampa nostrana si rilancia la polemica fra chi tifa per gli uni e chi per gli altri; su chi sia più colpevole o su chi sia l’aggredito e chi l’aggressore, ecc.   Tutti argomenti che penso sia del tutto inutile discutere in quanto ognuno ha già le sue idee ben radicate
Piuttosto, credo che potrebbe essere interessante fare qualche illazione su come andrà a finire.   Non questa puntata, ché probabilmente finirà come tutte le precedenti; bensì su come finirà la serie.   Voglio dire: continuerà così in eterno?   Oppure ad un certo punto cambierà qualcosa e sarà trovato un accordo vero?   Oppure uno dei due contendenti riuscirà ad annientare l’altro?   Ed in questo caso, presumibilmente chi dei due?
Come sempre quando si cerca di sbirciare attraverso le nebbie del futuro la probabilità di azzeccarci è minimale; queste righe vogliono quindi essere solamente uno spunto per riflettere su alcuni aspetti della questione normalmente trascurati.   Non un pronostico.
Gli elementi in gioco sono tantissimi, ma forse i principali sono: forza militare, forza politica, forza economica.    Allo stato attuale sappiamo quali sono, ma sarebbe interessante capire come l’evoluzione in corso nel sistema globale modificherà lo scenario in questione.
Per prima cosa diamo dunque un’occhiata all’attuale forza relativa dei due contendenti.   
Sul piano militare, Israele dispone di uno dei migliori eserciti del mondo, mentre dall’altra parte si schierano alcune migliaia di miliziani, perlopiù combattenti altamente motivati ed ottimamente addestrati, ma niente di neppur lontanamente comparabile con le forze cui si oppongono.   Teoricamente la guerra dovrebbe risolversi nel giro di pochi giorni ed invece va avanti da decenni.   Come è possibile?
Un primo tassello di questo puzzle è rappresentato dal tipo di forze che si contrappongono.    Nel tempo, Israele si è dotata di una forza militare studiata e strutturata per combattere e vincere una guerra convenzionale con i paesi confinanti.    Ma si trova a combattere una guerra non convenzionale in cui la componente politica è predominante su quella militare.   Semplicemente non possono utilizzare che una parte minimale del loro potenziale bellico perché in un ambiente urbano compatto come Gaza questo significherebbe migliaia e non diecine di morti al giorno; quasi tutti civili.   Se anche volessero (e non è detto che lo vogliano), non possono farlo.   I loro stessi alleati glielo impedirebbero.
Dall’altra parte, Hamas (come nel recente passato e forse in futuro Hezbollah) non ha alcun bisogno di centrare qualche obbiettivo minimamente rilevante.   Solo il fatto di continuare a sparare dei razzi contro un avversario smisuratamente più potente gli assicura la vittoria politica e morale.   Anche se i loro razzi fanno dei buchi per terra o poco più.
Altra asimmetria importante è il rapporto con i civili, propri ed altrui.   Da parte israeliana vige la necessità di garantire la completa sicurezza dei propri cittadini.   Non era così ai tempi in cui i Kibbuzin andavano nei campi con il fucile ad armacollo, ma oggi l’uccisione di un solo israeliano è giudicata un fatto inammissibile e vincola il  governo a reazioni anche spropositate.   D’altronde, se l’uccisione di civili palestinesi è entro certi limiti tollerata dalla comunità internazionale, non c’è dubbio che ogni singolo caduto da parte palestinese favorisce Hamas a tutti i livelli, sia interni che internazionali.   Paradossalmente, mentre per il governo israeliano ogni singolo civile ucciso (proprio od altrui) è un colpo politico, per i suoi avversari più gente muore (propri a ed altrui) e maggiore è il vantaggio politico e di immagine che ne ricavano.   Molti commentatori sostengono anzi che le milizie palestinesi usino scientemente i propri civili come ostaggi.   Di fatto funziona così ed è una cosa vista anche in altri contesti, ma non darei per certo che sia un fatto voluto.   Del resto, durante gli scontri fra Hamas e Al Fatah (2006-2007) la percentuale di civili uccisi fu ugualmente molto alta, malgrado non vi fosse alcun interesse politico in tali morti.
Comunque sia, sul piano militare Israele  non ha la minima possibilità di soperchiare una volta per sempre il nemico; mentre le milizie islamiste non possono neppure ingaggiare seriamente il nemico.   Dunque una situazione di sostanziale stallo, malgrado l’enorme disparità di forze in campo.
Sul piano politico, ho la netta impressione che siano lontani i giorni in cui i governi Rabin e Peres davano l’impressione di cercare davvero un ragionevole compromesso.   La tecnica arafattiana di trattare fino alla soglia di un accordo per poi mandare tutto a monte e ricominciare daccapo è stata efficace nel portare a Gerusalemme governi più o meno legati all’estrema destra religiosa ebraica, cosa che a sua volta ha molto favorito la popolarità delle fazioni estremiste in campo avverso.   Non so se sia stato voluto, ma di fatto l’effetto è stato quello di consegnare entrambi i popoli a delle classi dirigenti che hanno tutto l’interesse a mantenere uno stato di belligeranza cronico che assicura ad entrambi il mantenimento del rispettivo potere.   In sintesi, il migliore alleato politico di Netanyahu è Haniyeh e viceversa.    Una situazione comune anche in altri contesti.
Sul piano internazionale, entrambi i contendenti godono di protezioni potenti, ma molto più intricate di quanto non lasci credere la stampa corrente in quanto molti soggetti (governi e non) sostengono contemporaneamente più d’una tra le fazioni in causa e su entrambi i fronti.   Ma soprattutto le potenze che sostengono i contendenti ne vincolano anche, in una certa misura, l’operato.   Dunque, anche su questo piano, nessuna delle due parti ha la minima possibilità di rovesciare l’altra.   Non può Hamas perché non ne ha la forza; non può Israele perché i suoi alleati più vitali non glielo permetterebbero.
Esiste però un altro piano rilevante: quello economico.    Anche in questo caso a prima vista non c’è confronto possibile fra uno stato dotato di un’economia pienamente industrializzata ed un’organizzazione politico-militare che tira avanti con le rimesse degli emigrati, le tasse che riesce ad esigere da una popolazione perlopiù poverissima ed aiuti da paesi terzi che perseguono comunque scopi diversi da quelli che si pongono i principali contendenti in campo.   Eppure, proprio su questo piano è Hamas ad avere in mano le carte di migliori.   Anche se oggi dei missili di media gittata hanno sostituito (o integrati) i razzi Qassam, ordigni rudimentali estremamente imprecisi, con cui Hamas ha bersagliato il territorio nemico per anni, il fuoco proveniente da Gaza è ancora molto più economico ed efficace nel provocare una reazione che si manifesta invece con sistemi d’arma spaventosamente costosi sia d’acquisto, che di uso.   Un solo missile del sistema “iron dome” costa probabilmente molto di più di tutti i razzi sparati da Hamas nella sua storia, per non parlare dell’oltre 1 miliardo di dollari che ne è costato il suo sviluppo.    E lo stesso dicasi per i costi relativi al far volare un F-16, il costo del munizionamento impiegato, ecc.   Tutto ciò è importante perché porta un notevole contributo al debito pubblico dello stato ebraico (circa il 75% del PIL).
Questo ci porta alle prospettive.   Senza entrare qui in dettagli, lo scenario globale in cui questo conflitto si inserisce è quello “postpicco” cui è dedicata una vasta letteratura cui si rimanda.   In estrema sintesi: riduzione quali/quantitativa delle risorse energetiche con conseguente peggioramento delle condizioni economiche a livello globale, ma in modo non uniforme per i vari paesi e per le diverse classi sociali, con conseguente crescita delle tensioni politiche, sociali e militari.   Contemporaneamente, peggioramento complessivo delle condizioni ecologiche del Pianeta, con particolare riguardo al clima, alla produzione di cibo, alla disponibilità di acqua ed alla pescosità degli oceani.   Un quadro di questo tipo che influenza potrebbe avere sul conflitto israelo-palestinese?
Israele è uno fra gli stati a più alta densità di popolazione del mondo (365 ab/kmq nel 2012), oltre che uno fra quelli a più alto input tecnologico ed energetico; per sopravvivere dipende totalmente dal commercio con l’estero e largamente da aiuti economici da paesi (principalmente dagli USA) che versano a loro volta in situazioni economiche certamente non floride, con tendenza al peggioramento.   Anche senza la guerra, è molto probabile che subirà danni particolarmente gravi dall’insieme dei fenomeni connessi con il procedere della recessione globale e del picco energetico.    In questo senso, può essere efficace la strategia di Hamas di indurre Israele a spese crescenti che non possono sortire l’effetto di annientare il nemico, ma che possono viceversa aumentare la fragilità economica e politica dello stato ebraico.
D’altronde, la situazione dei territori palestinesi ed in particolare a Gaza è già ampiamente drammatica anche senza la guerra, che non può che peggiorarla.   Anche in questo caso abbiamo di fronte un “quasi stato” che vive sostanzialmente di aiuti dall’estero, in un contesto in cui tutti i suoi principali sponsor  stanno affrontando problemi economici e politici crescenti, sia in ambito interno che estero.   A cominciare dalle petrocrazie, anch’esse strette fra crescita demografica, riduzione o stagnazione delle produzioni, crescenti tensioni interne ed internazionali.   Non è difficile prevedere un progressivo inaridimento di molte delle principali fonti di finanziamento attuali.
Sul piano politico internazionale, già attualmente il conflitto in questione è slittato molto indietro nella lista delle priorità delle potenze straniere a vario titolo coinvolte: l’espansionismo cinese, il revanscismo russo, lo sgretolamento americano, la possibile dissoluzione dell’Europa e dell’India, il sempre più serio pericolo di una guerra aperta fra Arabia Saudita ed Iran sono solo alcune delle preoccupazioni che stanno catalizzando l’attenzione delle cancellerie mondiali.   E’ probabile che negli anni a venire la guerra israelo-palestinese perda ulteriormente d’interesse per i governi e le opinioni pubbliche mondiali, se non come pedina nel quadro del “grande gioco” attorno alle residue riserve di greggio di buona qualità.
E dunque,  quali potrebbero essere degli scenari realistici?   Nel breve termine, credo che semplicemente non cambierà nulla, anche se è bene ricordare che spesso eventi storici importanti prendono le mosse da eventi comuni.   Quello di Mohamed Bouazizi non è stato né il primo, né l’unico suicidio di protesta col fuoco, ma fu la scintilla che scatenò una serie di rivolte destinate a cambiare il quadro geo-politico mondiale (anche se non nel senso sperato, come spesso accade).  
Inoltre, il prossimo gradino discendente nelle economie dei principali paesi impegnati in questo scacchiere (USA, EU e petrocrazie) avrà probabilmente conseguenze molto gravi sull’economia israeliana e devastanti su quella palestinese.  
Ed allora?   Puramente a titolo di congettura, avanzerei tre scenari forse possibili, ma non ugualmente probabili.
1 – Cambiamento radicale delle politiche israeliana e palestinese.   In teoria, potrebbero entrambi capire che collaborare è l’unica strada per mitigare (anche se certo non evitare) la durezza dei tempi a venire.   Ma la dose di odio e timore reciproci sapientemente coltivata nei decenni su entrambi i fronti rende una tale prospettiva quanto mai improbabile.  
2 – Guerra totale.   A Cylon la guerra fra Cingalesi e “Tigri Tamil” è durata oltre 25 anni e per molti aspetti è stata simile a quella fra israeliani e palestinesi, con forze governative soverchianti impossibilitate ad usare pienamente il loro potenziale per la costante presenza di civili in prima linea.   Ma nel 2009 l’esercito cingalese attaccò i territori controllati dai ribelli sparando con tutto quello che aveva su chiunque indiscriminatamente: miliziani, ostaggi e civili; tamil e cingalesi.   Il numero dei morti non è mai stato accertato, ma sicuramente fu di parecchie diecine di migliaia di persone; la struttura militare delle Tigri fu spazzata via e la popolazione tamil supersite fu in gran parte internata in campi di concentramento dove molti morirono poi di stenti. http://www.ilpost.it/2013/10/03/foto-tamil-sri-lanka-andrea-kunkl/
Potrebbe una cosa simile ripetersi in Palestina?   Per adesso sicuramente no.   Non lo vorrebbero la maggior parte degli israeliani e non lo permetterebbero gli USA, ma cambiando il quadro internazionale e peggiorando le condizioni di vita su entrambi i fronti, non è da escludersi un’escalation di violenza al momento senza precedenti in zona.
3 – Recrudescenza progressiva.   Una terza possibilità è che con il tempo gli israeliani si vedano costretti a ridurre il loro budget della difesa, con conseguente abbassamento dello standard tecnologico e dunque del divario fra le forze in campo.   Un simile scenario aumenterebbe considerevolmente le possibilità operative di Hamas e forse è questa la loro strategia.   Ma non credo che sarebbe favorevole per la popolazione civile su entrambi i fronti.   Infatti, se i soldati con la Stella di Davide si trovassero costretti a combattere casa per casa, con tecniche ed armi non molto diverse da quelle del nemico, è probabile che su entrambi i fronti il numero di atrocità gratuite aumenterebbe, generando una spirale di vendette al cui confronto quella attuale potrebbe sembrare una situazione pacifica.   La guerra attuale potrebbe insomma diventare simile alla guerra civile siriana.
E le armi nucleari?   L’arsenale israeliano è stimato fra gli 80 ed i 200 ordigni, ma in realtà tutto si basa su indiscrezioni e stime che il governo non ha mai né confermato, né smentito proprio per disporre di una deterrenza nucleare senza però assumersi gli impegni internazionali solitamente connessi con lo status di “potenza nucleare” e (forse) senza neppure accollarsi le spese iperboliche connesse con la realizzazione e la manutenzione di queste armi.
Dunque non si sa se questo arsenale davvero esista ed, eventualmente, in quale misura sia operativo; ma se esistesse, in tempi di progressivo collasso economico Israele si troverebbe, come altri stati, nell'imbarazzante situazione di disporre di armi che non si potrebbero più permettere di mantenere, ma che non potrebbero neppure smantellare (sempre per i costi eccessivi) e nemmeno abbandonare (per i rischio che qualcun altro le trovi).   E neppure utilizzare perché si tratta di armi destinate unicamente alla deterrenza nei confronti di potenze militarmente preponderanti; attualmente solo l’Iran potrebbe forse rivestire questo ruolo, ma personalmente ritengo molto più possibile una guerra fra Iran ed Arabia Saudita per il controllo del petrolio iracheno, piuttosto che un attacco ad Israele che ho l’impressione interessi sempre meno all'opinione pubblica araba.   Non per un sopravvenuto desiderio di pace od altro, ma semplicemente perché pressata da problemi molto più contingenti e direttamente sulla propria pelle (fame, disoccupazione, abnormi disparità economiche, razionamento dell’acqua, ecc.).
In definitiva, se il governo israeliano spera di spingere la popolazione palestinese a ribellarsi ad Hamas ed accettare un trattato molto peggiore di quello a suo tempo rifiutato da Arafat, credo che si sbagli di grosso. L'isolamento, l'eccesso nelle rappresaglie e la progressiva usurpazione di territorio con sempre nuovi insediamenti ebraici stanno sortendo, mi pare, l'effetto esattamente contrario.   Gli israeliani dovrebbero riflettere bene sul fatto che la loro enorme superiorità militare tenderà a ridursi; che faranno quando non saranno più in grado di mantenere la macchina bellica attuale?
Quanto ai dirigenti palestinesi, dovrebbero aver capito da un pezzo che l'unica cosa che possono ottenere con i loro attacchi sono delle rappresaglie.   E se il loro scopo è quello di riportare la loro battaglia sulle prime pagine dei giornali internazionali, dovrebbero considerare che il numero di morti palestinesi necessario per raggiungere tale scopo sarà sempre più alto.   Ne vale pena?   Per ottenere cosa?   Se il loro scopo è vedere la dissoluzione di Israele è probabile che basti aspettare: tutti gli stati attuali finiranno col dissolversi e le società con il riorganizzarsi diversamente.   Se il loro scopo fosse invece quello di vedere sorgere uno stato palestinese, ogni giorno che passa ed ogni razzo che parte allontana, anziché avvicinare tale prospettiva.