giovedì 15 maggio 2014

Oltre l'orlo dell'abisso.

Cari lettori di "Commenti" con il post di oggi spero che possa iniziare una proficua collaborazione con Jacopo Simonetta cui mi lega un'amicizia, ritrovata recentemente, che risale all'infanzia (mezzo secolo insomma). Le sue riflessioni politiche sono a mio parere molto centrate e aiutano a capire il momento che stiamo vivendo. Questo blog è sempre stato molto più politico che tecnico ed è per questo che il post di Jacopo non poteva che trovare piena accoglienza in questo blog. Jacopo ha pubblicato altri interventi interessanti sul blog di Ugo Bardi. Un saggio in quattro parti intitolato L’UNICITÀ DELLA SPECIE UMANA NE DETERMINA IL FATO? [qui trovate un addendum al saggio nel quale sono riportati i link alle quattro parti che consiglio di leggere in ordine]. Nell'articolo Sbirciare il futuro invece, Jacopo abbozzava le premesse economiche che portano all'articolo pubblicato qui oggi. Un articolo che tenta di uscire dalla dicotomia fra pessimismo e ottimismo per cercare di intravedere un cammino praticabile oltre l'orlo dell'abisso.
Buona lettura.

IL FALLIMENTO DEL MOVIMENTO AMBIENTALISTA.

di Jacopo Simonetta.

 
“Se il collasso è qualcosa, è un’immersione planetaria nel gorgo del paradosso.   Se non comprendiamo e rispettiamo il paradosso, finiremo a chiederci sempre le medesime domande sbagliate” (C. Baker 2013, Collapsing consciously).



In effetti, osservando la recente evoluzione della nostra società non si può evitare di notare l’emergere di una quantità incredibile di paradossi, uno dei quali è quello di cui vorrei qui occuparmi.  
Durante gli anni ’70 , quando la possibilità di un collasso socio-economico ed ambientale di scala globale era considerato uno scenario possibile nel giro di 50 o 100 anni, il movimento ambientalista era forte e sembrava capace di cambiare la storia del mondo.   Nelle sue infinite articolazioni, riusciva incidere in maniera marginale, ma avvertibile sulle decisioni politiche, almeno nei paesi occidentali dove esisteva una sostanziale libertà di stampa e di parola.
Oggi stiamo vivendo le prime avvisaglie di un collasso che appare forse mitigabile, ma oramai inevitabile nel giro probabilmente di 10 o 20 anni.    Dovrebbe essere il momento della rivincita: quello in cui al grido di “Lo avevamo detto” orde di ambientalisti si impongono finalmente nelle sedi del potere (governi e parlamenti, consigli di amministrazione, mass-media, ecc.), mentre accade esattamente il contrario.    Le associazioni storiche sopravvivono, i partiti “verdi” scompaiono, i pochi limiti legali e morali faticosamente posti alla distruzione del pianeta vengono man mano rimossi senza pudori.  
E’ chiaro che ogni situazione particolare ha la sua storia ed i suoi problemi, ma il declino dell’ambientalismo è un fenomeno globale e, dunque, deve anche avere delle cause globali, oltre a quelle che riguardano, invece, questa o quella organizzazione in particolare.
In qualità di veterano e superstite di questo movimento, mi sono posto alcune domande.  La prima:

C’è stato qualcosa di sbagliato alla radice del movimento?
Penso di si, ma non essendo un politologo, posso proporre solo delle riflessioni basate sull'esperienza personale.
Nel suo insieme, l’ambientalismo non ha saputo elaborare e divulgare un paradigma politico alternativo ai due che, all'epoca, si contendevano la scena: il liberalismo ed il socialismo.   Molto presto infatti, la maggior parte degli aderenti e delle organizzazioni ambientaliste si sono lasciate aspirare e stritolare nella dialettica destra-sinistra che nulla aveva a che fare con il cuore del problema.   In pratica, il movimento si è diviso fra coloro che hanno pensato che il sistema liberal-capitalista fosse sostanzialmente valido, salvo una serie di correzioni che dovevano esservi introdotte per garantire un adeguato livello di tutela ambientale.
Sull'altro fronte coloro che, viceversa, ritenevano che il modello socialista fosse in grado di assicurare pace e benessere ai popoli e, dunque, con alcune integrazioni potesse acquisire anche la capacità di frenare il degrado degli ecosistemi, l’esaurimento delle risorse ecc.
In pratica, da entrambe le parti si è pensato di migliorare quello che già era disponibile, anziché elaborare qualcosa di autenticamente originale.   Eppure, al di la dei parziali e limitati successi che entrambi gli schieramenti possono effettivamente rivendicare, non avrebbe dovuto volerci molto a capire che si trattava di una posizione perdente a priori.   Sia il capitalismo che il socialismo perseguono infatti il progresso indefinito della società.   La differenza fra di essi non è quindi negli scopi ultimi, ma su quali siano i mezzi migliori per perseguirli, quali i modi più efficaci per accelerare il progresso e come ripartirne i benefici frutti.  
Entrambi i filoni dell’ambientalismo, accettando e facendo proprio il corpus centrale delle due dottrine socio-economiche di rispettivo riferimento, necessariamente hanno fatto proprio il nucleo centrale che le accomuna: il Progresso.   Un archetipo, che si porta dietro un vasto corollario di conseguenze e che nessuna analisi dei fatti potrà mai scalfire in quanto si tratta, tipicamente, di un postulato pre-analitico (Daly, Ecological Economics 2004).  
A mio parere, era invece proprio l’archetipo del progresso che avrebbe dovuto essere messo in discussione, ma ciò avrebbe significato attaccare la radice stessa del pensiero moderno alla cui origine troviamo padri del calibro di Bacone, Galileo, Cartesio, Hobbes, Boyle, ecc.   Un filone di pensiero poi sviluppato dall'illuminismo e santificato da 2 secoli di scuola pubblica.   Difficile immaginare un compito più arduo.
Del resto, perfino nelle pagine della prima edizione dei “Limiti dello sviluppo” si leggeva tra le righe una diversa impostazione fra Donella e Denis Meadows; una diversità che si è andata poi palesando meglio nelle edizioni successive.   Il risultato finale del loro studio era infatti chiaro: qualunque risulti essere la dotazione di risorse del pianeta e qualunque sia il livello di tecnologia raggiungibile, il collasso del sistema sarà inevitabile ed il nostro destino tanto più fosco quanto più abbondanti saranno le risorse e potenti le tecnologie.   Unica via di uscita dalla trappola era fermare la crescita demografica e la crescita economica prima di raggiungere una soglia critica che non era definibile con certezza, ma che si sapeva non essere lontana.   Un messaggio chiaro che andava totalmente e direttamente contro l’intero apparato filosofico ed ideologico della “modernità”, chiudendo definitivamente con il mito delle “sorti magnifiche e progressive dell’umanità” (Leopardi, La Ginestra).  
Qualcosa di talmente forte che neppure tutti i membri del gruppo erano pronti ad accettarne le conseguenze, a cominciare dalla stessa Donella che volle mitigare il messaggio, lasciando aperta comunque la possibilità di un miglioramento qualitativo della vita degli uomini.   In fondo, si disse, se facciamo sempre meglio con sempre le stesse cose, e non aumentiamo di numero, perché non dovremmo migliorare indefinitamente le nostre vite?   In altre parole, si pensò che fosse possibile distinguere fra uno “sviluppo insostenibile” fatto soprattutto di crescita quantitativa ed uno “sviluppo sostenibile” fatto di buone pratiche, solidarietà sociale ed efficienza industriale.
Oggi che “sviluppo sostenibile” ed “efficienza” sono divenute le parole d’ordine dei più folli e disperati tentativi per rilanciare una crescita oramai da un pezzo anti-economica, il loro suono risulta quasi osceno, ma all'epoca furono le parole d’ordine su cui si strutturarono entrambe le anime dell’ambientalismo: quella liberale e quella socialista.   Ed esattamente questo fu, a mio avviso, l’errore di partenza che fece smarrire la strada a tutti noi che, a quei tempi, raccoglievamo fondi per salvare la Foca monaca o ciclostilavamo volantini nei sottoscala.
A mio avviso, per essere efficace, il movimento ambientalista, avrebbe dovuto capire subito che il nemico non erano il capitalismo o il socialismo, ma i miti fondanti della modernità a cui entrambe queste scuole di pensiero politico attingono.   Dunque una rivoluzione ben più radicale di quelle di moda all'epoca, e questo ci porta alla seconda domanda:

Avrebbe potuto andare diversamente?
Da subito, il progetto si incagliò su numerosi scogli.   A mio avviso, due dei più importanti, che peraltro non  vengono mai trattati, furono le conseguenze che politiche efficaci sul piano della sostenibilità avrebbero potuto avere sugli equilibri geo-politici e sulle politiche sanitarie.
Frenare la crescita economica avrebbe infatti comportato la probabilità di un parallelo rallentamento del progresso tecnologico.   USA ed URSS (con i relativi satelliti) erano allora impegnati in uno scontro formidabile per il controllo del pianeta e nessuno dei due contendenti era in grado di assumersi un tale rischio, men che meno il blocco occidentale che aveva adottato (con successo) una strategia fatta di un dispiegamento di forze quantitativamente molto inferiore, ma tecnologicamente più avanzato.
Così ci si concentrò sull'aspetto demografico e chi non è più giovane ricorderà che, in Europa, la sovrappopolazione era un argomento sulla bocca di tutti.   Alcuni paesi avviarono anche delle concrete politiche di riduzione delle nascite, in particolare l’India (poi abbandonate) e la Cina (tuttora vigenti in forma attenuata), ma nessuno si sognò neppure lontanamente di mettere in discussione gli effetti demografici che il fulmineo progresso della medicina stava avendo in tutto il mondo.   Eppure, non è certo un segreto che la demografia dipende dall'equilibrio fra nascite e morti; e che con animali molto longevi come l’uomo gli effetti di fluttuazioni anche modeste da entrambe le parti hanno effetti complessi, destinati a farsi sentire nei decenni.   Un argomento politicamente minato ancor oggi, tanto più allora che avevamo una salubre memoria delle follie criminali di Hitler e Stalin.   Così, si preferì evitare l’argomento, sperando che la “transizione demografica” avrebbe risolto il problema da sola ed in tempo.   In pratica, ci si affidò alla crescita economica per risolvere i problemi che questa stessa creava.   Difficile che potesse funzionare ed infatti non ha funzionato, ma sarebbe stato possibile affrontare diversamente l’argomento con un minimo di probabilità di successo?    Penso di no.  
Un’altra ragione per cui, a posteriori, penso che non avrebbe potuto andare diversamente era la possibilità di comunicare il nostro messaggio.   In buona parte del mondo (Russia, Cina e molti altri), semplicemente era vietato.    Nei paesi occidentali era invece permesso, ma il nemico da battere si è dimostrato capace di assorbire non solo una parte dei quadri del movimento, ma anche fare proprie la retorica e la dialettica ambientaliste, assorbirne gli slogan modificandone il significato così da renderlo funzionale al proprio scopo fondamentale: la crescita.   E poiché il significato delle parole cambia nel tempo a seconda di come queste vengono impiegate, ad oggi è giocoforza ammettere che il capitalismo ha vinto non solo sul piano politico, ma prima ancora su quello semantico, a tal punto che è diventato arduo lo stesso argomentare contro di esso.
Ma anche al di la questi ed altri ostacoli, quali potevano essere le probabilità di successo di un movimento politico che, per essere coerente, avrebbe dovuto predicare la fine del progresso e del benessere materiale per tutti?    Finquando si è trattato di dire ai benestanti cittadini occidentali che dovevano rinunciare a quota parte del loro benessere, in molti si sono fatti avanti a dirlo, anche se con scarsi risultati (cfr. il rapporto Europa sostenibile e gli scritti di S. Latouche, fra i numerosi altri).   Ma era evidente che sarebbe stato del tutto inutile se, contemporaneamente, tutti gli altri popoli della terra non avessero rinunciato ad acquisire un analogo benessere: una cosa talmente “politicamente scorretta” che praticamente nessuno ha finora avuto il coraggio di dirla.    Ma neppure ciò sarebbe bastato.   Giunti alle strette degli anni ’70, fermare la crescita demografica era imperativo e non poteva essere fatto senza porre dei limiti al progresso della medicina.   Una cosa assolutamente improponibile, con ottime ragioni perché fosse così.
Dunque l’ambientalismo politico si trovò da subito stretto in un’impasse che avrebbe potuto essere superata solo con un radicale cambio di paradigma; un salto culturale talmente grande da non essere neppure tentato.
Schopenhauer diceva che solo ciò che poi accade era davvero possibile che accadesse.   Personalmente condivido solo in parte tale illustre opinione, ma nel caso in esame penso che si possa applicare pienamente.   E questo ci porta alla terza domanda:

Ad oggi continua ad avere un senso fare dell’attivismo ambientalista?   Se si, Quale? 
Bisogna ammettere che oggi è particolarmente imbarazzante fare discorsi ambientalisti.    Che dovremmo dire?     La maggior parte delle organizzazioni ancora attive continua a “suonare” allarmi ormai consunti dall'uso e dall'abuso.    Che senso ha continuare a dire che “se non facciamo questo e quest’altro avverrà una catastrofe”, quando la catastrofe è in corso e non ha spostato di una virgola la direzione del sistema?   L’esempio più facile è quello del clima.   30 o 20 anni fa era giustificato dire: “Se non riduciamo le emissioni il clima peggiorerà e farà dei danni”.    Che senso ha ripeterlo oggi, mentre sui teleschermi le immagini di alluvioni e siccità, tornado ed uragani si alternano quotidianamente alla pubblicità dell’industria energetica ed agli appelli per il “rilancio della crescita”?   E con tale naturalezza che non ci si accorge nemmeno più della schizofrenia della cosa.
D'altronde, che senso può avere andare in giro a dire che tanto oramai non c’è più niente da fare?   A parte che ciò facilmente suscita reazioni ostili e gesti osceni, rischia anche di servire da pretesto per rimuovere anche i pochi veli di protezione che ancora mitigano la follia autodistruttiva del sistema economico.
La risposta, ritengo, dipende essenzialmente dallo scopo che ci si prefigge.   Se ci si danno finalità possibili, c’è sempre un senso a fare qualcosa.   Lo scopo di partenza, dirottare il mondo su di un cammino di sostenibilità è fallito, ma abbiamo altre possibilità di azione.
La prima sta venendo di moda con l’etichetta di “resilienza”.    In estrema sintesi, si tratta di questo: preso atto dell’inevitabile, possiamo comunque prepararci in una certa misura agli eventi futuri ed aumentare le probabilità di sopravvivenza nostre e quelle dei nostri parenti ed amici.   Si tratta di un campo praticamente sterminato, totalmente da inventare in cui ognuno può rendersi utile anche solo proponendo idee e consigli, magari sbagliati ma comunque capaci di stimolare altre idee in altre persone.
La seconda è che se non possiamo fare quasi più niente per migliorare il nostro destino, possiamo invece fare tantissimo per peggiorarlo ulteriormente.    Anche solo evitare di fare cose stupide sarebbe un grandissimo vantaggio ed in questo penso che rivesta un ruolo importante la divulgazione scientifica.   Se si riesce a capire, almeno in parte, cosa sta succedendo e perché, sarà meno facile farsi abbindolare da chi promette l’impossibile, naturalmente a patto di votarlo o di comprare i suoi prodotti.
Una terza possibilità di azione riguarda il futuro remoto; quelle “bottiglie gettate in mare” di cui parla Edgar Morin (La via 2012).   Nessuno può sapere quale aspetto avrà il collasso visto dal nostro punto di vista, e neppure quanto tempo prenderà, né quale sarà il nostro personale destino.    Ma  possiamo contare sul fatto che le doti di resistenza e resilienza della specie umana faranno sì che, quando la vegetazione coprirà le rovine delle nostre megalopoli, ci saranno degli uomini a discutere di cosa siano quei grandiosi ruderi.   Possiamo fare qualcosa ora per aiutarli?    Io penso di si.    Oggi disponiamo di un patrimonio di conoscenze scientifiche e di arte in ogni forma possibile, che sarebbe veramente stupido e criminale lasciar morire con noi.   Io penso che dovremmo preoccuparci di divulgare il più possibile questo immenso patrimonio, proteggerne la parte materiale (opere, monumenti, musei, libri, ecc.) in modo da accrescere le probabilità che parte di tutto questo sopravviva alle fasi più violente e disperate del disfacimento della nostra civiltà.    Molte delle opere che ci sono giunte dal nostro remoto passato sono sopravvissute grazie a persone che le hanno copiate, nascoste, protette, tramandate.    Noi abbiamo in questo campo una possibilità praticamente infinita di azione.

In conclusione, ritengo che il movimento ambientalista fosse in partenza destinato a fallire il suo scopo principale, ma non è stato per questo inutile.   Se il filone principale del movimento non ha potuto scalfire i paradigmi della civiltà moderna, l’ambientalismo ha nondimeno influenzato importanti frange del pensiero contemporaneo, creando i presupposti perché dei paradigmi veramente alternativi possano nascere, o rinascere, contribuendo forse in modo importante alla formazione delle civiltà che, probabilmente fra qualche secolo, si diffonderanno sulla Terra.
Uno dei maggiori padri del pensiero moderno è stato senza dubbio Hobbes che nella sua opera più importante creò una metafora particolarmente geniale: il Leviatano.   Egli sostiene che la società moderna e civilizzata è un corpo unico, formato dall'insieme di tutti i cittadini, sotto la guida di un governo che riunisca sia il potere temporale che quello spirituale.   Oggi sappiamo che, effettivamente, le società umane hanno diversi punti di forte affinità con gli organismi coloniali: si pensi solo alla totale interdipendenza delle persone riunite in un unico sistema di mercato che controlla praticamente tutti i flussi di materia e di energia, ma anche l’informazione e, dunque, come la realtà viene percepita e compresa.   Forse la differenza principale fra noi e la metafora di Hobbes risiede proprio in questo: che il governo controlla ancora il potere della legge e della forza, mentre il potere di decidere quale sia la varietà, almeno nei paesi occidentali, è passato al mercato.   Per taluni alla “rete”, in cui è possibile trovare qualunque “verità” immaginabile.
In conclusione, il Leviatano, nato nel culto del progresso e finalizzato alla crescita, era dunque il vero nemico da battere, lo avevano ben capito, intuitivamente, i Luddisti due secoli fa, ma il Leviatano ha vinto.    Ha vinto soprattutto perché, grazie alla sua natura coloniale e plasmabile, si è dimostrato capace di assorbire e far propri i suoi stessi oppositori, oppure di marginalizzali al punto di privarli del significato stesso delle loro parole.
Il Leviatano ha vinto, ma non può evitare le conseguenze della sua stessa vittoria e sta quindi morendo.   Sarà un’agonia lunga e dolorosa, tanto vale cominciare ad occuparci di chi verrà dopo.



13 commenti:

  1. Complimenti a mio parere veramente magistrale.

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  2. .....il Leviatiano come ne "il Mostro mite" di Simone Raffaele;
    http://www.garzantilibri.it/default.php?CPID=2306&page=visu_libro

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  3. In realtà qualcuno al superamento di questo dualismo aveva già pensato, e per quanto minoritario esiste anche nell'ambientalismo un movimento che pone le proprie radici in quel superamento.

    Da un punto di vista teoretico e filosofico (ma non solo) sicuramente il punto di riferimento è Gandhi con la sua teorizzazione di un nuovo modello di sviluppo (vedi a tal proposito l'analisi di Galtung e la codifica dei quattro mds).

    Da un punto di vista economico, un po' di conseguenza, è importantissimo il contributo portato da JC Kumarappa con la sua economia della permanenza, ripreso un po' superficialmente da tante piccole realtà "alternative" anche da noi. Dico di conseguenza perché Gandhi l'aveva scelto come suo consigliere economico, la reciproca influenza è quindi ovvia.

    Più vicino a noi possiamo trovare spunti politici interessanti nel manifesto del liberalsocialismo di Calogero e Capitini, e sopratutto in tutta la parte pragmatica della cultura della nonviolenza: dalla riforma sociale capitiniana basata dalla riforma religiosa (che possiamo anche interpretare come la religione civile mazziniana, ispiratrice degli stessi Gandhi e Capitini).

    Scendendo ancor più nella pratica, questo si traduce nella politica dei villaggi per Gandhi/Kumarappa, nei CoS/CoR per Capitini, nelle Comunità dell'Arca di Lanza del Vasto...

    Ovviamente sembra tutto molto lontano dagli schemi delle teorie politiche occidentali che qui citi, ma è da queste che nasce come riflessione critica.
    E si tratta di una critica ancora più profonda e ancora più radicale di quella decrescitista, che comunque cerca radici nel modo occidentale di leggere il mondo e quindi si perde qualche occasione di innovazione.

    Guardando bene si tratta sempre di un nuovo paradigma (possiamo dire, con licenza, anche lo stesso con diverse sfumature) che coinvolge ambientalismo, politica, economia e religione (come ricerca sulla relazione con l'umano e con ciò che l'umano non comprende)... e di una forma pratica sociale/politica/economica di realizzazione dei principi teorizzati.

    Insomma, quel che manca c'è già. E' che semmai è reso invisibile dalla polvere sollevata dalla furia in cui i "crescitisti" di sinistra e di destra si agitano per conquistare il predominio gli uni sugli altri.

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    1. Sono d'accordo. Man mano che il "verbo" crescista delude, masse crescenti di persone cercano altrove e questa ricerca sta generando una pletora caotica di movimenti ed idee. La maggior parte sono del tipo "cerchiamo di stare ancora peggio" tipo le varie forme di integralismo religioso o di nazionalismo di ritorno, ma ce ne sono anche di molto interessanti e costruttivi. Gli eventi dei decenni venturi si incaricheranno di selezionare quelli adatti a fornire i paradigmi fondanti delle prossime civiltà e quelli che, invece, finiranno rapidamente nella "compostiera della storia", per citare un modo di dire di Michael Greer particolarmente azzeccato.

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  4. 4. We therefore advocate a revolution against the industrial
    system. This revolution may or may not make use
    of violence; it may be sudden or it may be a relatively
    gradual process spanning a few decades. We can’t predict
    any of that. But we do outline in a very general way the
    measures that those who hate the industrial system should
    take in order to prepare the way for a revolution against
    that form of society. This is not to be a POLITICAL revolution.
    Its object will be to overthrow not governments
    but the economic and technological basis of the present
    society.

    .....qui per il resto....

    http://editions-hache.com/essais/pdf/kaczynski2.pdf

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    1. Leggerò appena posso il documento alquanto lunghetto. Se ho capito bene l'autore è Unabomber?
      Spedire una bomba a qualcuno può essere una forte tentazione, ma è una cosa stupida da fare.
      Per imporre un cambiamento con la violenza occorre essere in gradi di esercitare una violenza maggiore di quella a disposizione dell'avversario. E se l'avversario è il governo .... Ciao, quando arrivi scrivi.
      Del resto la storia di Unabomber è esemplare: ferendo ed ammazzando alcune persone che non contavano niente, ha contribuito a legittimare le posizioni che voleva combattere.
      Io ho citato i luddisti come gente che aveva intuito vagamente la fregatura e confermo la mia idea, ma i luddisti hanno perso. Perfino più degli ambientalisti.
      Jacopo

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    2. Il punto è che non si dovrebbe pensare di imporre cambiamenti con la forza ad un governo, ma è il governo che dovrebbe usare la forza per imporre cambiamenti (dico forza perché ovviamente non parlo di spedire bombe). E' chiaro che questioni come la condivisione democratica di un'idea, o la sua correttezza politica sono fuori discussione. Quel che va fatto, va fatto. Ci prenderemo anche i gesti osceni a dire che così non c è niente da fare, ma è anche vero. Ergo non c è niente da dire per un governo, solo da fare, e fare diversamente da oggi. Certamente le cose non potevano andare diversamente, date le premesse che hai così bene analizzato.
      "il Leviatano, nato nel culto del progresso e finalizzato alla crescita [...] ha vinto", su questo sono in disaccordo totale. Il Leviatano ha perso, su tutta la linea, e non credo nascesse dal culto del progresso, ma dalla paura dello stato di natura (e vorrei vedere). Non per fare stare tutti meglio, ma per tenere tutti in riga. Oggi un ometto qualsiasi può fare causa a quell'insieme di cittadini che è lo Stato e vedersi riconosciuta ragione anche se non ce l'ha, può rubare a quello stesso insieme senza mai essere punito come merita, può fare 10 figli senza che nessuno gli chieda conto. Il nostro risibile Stato non si può neanche far chiamare Leviatano.

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    3. "At its most elemental level the human organism, like crawling life, has a mouth, digestive tract, an anus, a skin to keep it intact, and appendages with which to acquire food. Existence, for all organismic life, is a constant struggle to feed - a struggle to incorporate whatever other organisms they can fit into their mouths and press down their gullets without choking. Seen in these stark terms, life on this planet is a gory spectacle, a science-fiction nightmare in which digestive tracts fitted with teeth at one end are tearing away at whatever flesh they can reach, and at the other end are piling up the fuming waste excrement as they move along in search of more flesh

      ... and this brings us to the unique paradox of the human condition: that man wants to preserve as does any animal or primitive organism: he is driven by the same craving to consume, to convert energy, and to enjoy continued experience. But man is cursed with a burden no animal has to bear: he is conscious that his own end is inevitable, that his stomach will die.

      ... man wants to know that his life has somehow counted, if not for himself, then at least in a larger scheme of things, that it has left a trace, a trace that has meaning. And in order for anythinkg once alive to have meaning, its effects must remain alive in eternity in some way.

      ... since men must now hold for dear life onto the self-transcending meanings of the society in which they live, onto the immortality symbols which guarantee them indefinite duration of some kind, a new kind of instability and anxiety are created. and this anxiety is precisely what spills over into the affairs of men. In seeking to avoid evil, man is responsible for bringing more evil into the world than organisms could ever do merely by exercising their digestive tracts. "

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  5. La violenza come metodo è ovviamente da escludere, anche solo per un minimo di coerenza interna.
    La difficoltà di chi la pensa come noi, infatti, è proprio quella di cercare cambiare il paradigma con le buone, ovvero con la sola forza di convinzione. E' il concetto contenuto, per esempio, nel nome stesso dell'associazione RIENTRO DOLCE, che Luca ben conosce.

    Se falliremo, ci pernseranno poi le forze della storia e della natura a cambiare le cose con la violenza: non è che abbiano bisogno del nostro aiuto.

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    1. Grazie, hai riassunto in una frase tutto il senso del discorso!
      Jacopo

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    2. Troppo gentile.
      Il tuo post è talmente interessante e profondo, che non potrò fare a meno di riportarlo nel mio (piccolo) blog.
      Spero che la cosa non ti dia disturbo.

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  6. Post sicuramente interessante e ricco di spunti!
    Per quel che può valere, concordo appieno sulla tesi del (parziale) fallimento del movimento ambientalista, generalmente rimasto irretito nella tradizionale dicotomia 'destra-sinistra' (peraltro con tendenziale prevalenza di quest'ultima); forse qualche parola andava spesa sulla terza "anima" del movimento, quella a sfondo mistico-religioso (cristiano, ma non solo), oggi ampiamente sulla cresta dell'onda ma che (spec.te nella sua versione cattolico-romana) trascurando completamente il problema della sovrappopolazione e ponendo l'accento pressoché esclusivamente sul mantra della 'redistribuzione' si condanna automaticamente al ruolo di mero 'flatus vocis'...
    Infine, anch'io nutro perplessità sull'effettiva applicabilità al ns. tema della pur suggestiva metafora del Leviatano, che trova la sua origine in ambito filosofico-giuridico-politico e non sembra facilmente trasportabile sul piano del moderno pensiero economico 'crescitista' ... senza dimenticare che uno dei principali teorici del 'culto del progresso' (Condorcet) era dichiaratamente e saggiamente favorevole a pratiche pubbliche volte al contenimento del tasso di fecondità umana entro limiti sostenibili...

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  7. Post oggettivamente ricco di spunti e stimolante.

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