Blog di Luca Pardi e Jacopo Simonetta sui limiti di questo pianeta.
venerdì 19 luglio 2013
Inferno, ma non troppo.
Questa è la Battaglia di Marciano di Vasari che si trova nel Salone dei 500 a Palazzo Vecchio e che ha nel famoso "cerca trova" (evidenziato nella foto) uno dei numerosi indizi che il prof. Lagton segue nell'ultimo romanzo di Dan Brown, Inferno. Un triller demografico- ecologico che appare interessante per come la questione dell'esplosione demografica e dei suoi effetti ecologici possono entrare nella coscienza pubblica globale. Si era cimentato nel genere eco- narrativo anche Michael Crichton con il suo "Stato di paura" che piacque tanto ad alcuni negazionisti del cambiamento climatico come Maurizio Morabito, Carlo Stagnaro, Benedetto della Vedova. Dan Brown sembra seguire una logica diversa e, forse, più riflessiva. Il romanzo, una lettura di riposante tranquillità nonostante il tema, si dipana pagina dopo pagina nella ricerca del prodotto di un pazzo e geniale biotecnologo che, convinto della necessità di andare oltre le raccomandazioni onusiane sulla salute sessuale e riproduttiva, si debba cominciare a lavorare per ridurre la popolazione prima che l'uomo si estingua. Per tutto il romanzo, nel quale è ricorrente il tema della peste nera, uno si aspetta che il prodotto biotech di questo eco-terrorista sia un agente patogeno che sterminerà, come Yersinia pestis almeno metà della popolazione mondiale. Invece. Sorpresa. Il finale è quasi a lieto fine, non perché i nostri eroi trovino il maledetto patogeno che è chiuso in una qualche sacca nascosto nella cisterna di Istanbul, prima che si diffonda, ma perché quello che si diffonde è un virus di nuova concezione che rende sterili. Quando l'OMS fa le prime indagini l'umanità è stata contagiata e circa un terzo di essa è sterile. Tutto sommato, pensa uno come me, meglio dell'ipocrisia e delle pezzette umide della politica demografica onusiana. Per non parlare di quelli che si affidano alla divina provvidenza per sfamare una popolazione sempre crescente. Mi è quasi venuto da pensare che Dan Brown abbia scritto "per vedere di nascosto l'effetto che fa". In un certo senso, quantunque illegale da ogni possibile punto di vista, sarebbe un metodo più umano dello sterminio per fame, malattia o guerra, i cavalli dell'apocalisse maltusiani.
domenica 23 giugno 2013
La demografia è lo specchio della società.
L'autorevole (sono sempre così) opinionista Gianni Riotta oggi fa uso di questa bella frase per mettere a confronto i giovani Brasile e Turchia, pieni di fermenti e lanciati verso il futuro, con la vecchia Italia che difende i privilegi economici acquisiti negli anni 60-70. Può darsi benissimo che difendere quei privilegi sia addirittura un'assurdità impossibile, ma prima che i vecchi e pacifici italiani che danno vità alle manifestazioni sindacali che rattristano Riotta (e che in effetti sono un po' malinconiche) capiscano quanto tale difesa sia impossibile, Riotta, e quelli come lui che con saccenteria degna di miglior scienza ci suggeriscono i modi più intelligenti di intepretare il mondo, devono capire che una società per mantenersi giovane (gggiovane) deve essere in crescita demografica e una società non può essere in crescita demografica per sempre. Arriva il momento in cui invecchia anche se questo rattrista Riotta e i cantori dello Startuppismo. Non ci si può fare proprio nulla altro che organizzare una risposta che non può essere quella di rimettersi di nuovo a riprodursi come bestie per ringiovanire la società. L'invecchiamento della società è un transiente storico inevitabile e perfino positivo. Poi, quando avranno capito che la crescita demografica non è una virtù, ci potremo dedicare a spiegargli che nemmeno la crescita economica infinita è possibile. Ma questi sono veramente idioti o fanno da idioti?
venerdì 14 giugno 2013
Trashed.
L'altro ieri sera mi telefona un collega, chimico, e mi dice che sta tornando dalla Prima fiorentina di Trashed, il film documentario diretto da Candida Brady sui rifiuti e l'ambiente. Francesco, persona di cui ho grande stima, è particolarmente ... colpito e mi dice semplicemente: devi vederlo. Questo non è un fatto secondario. Oggi come oggi trovare scienziati e tecnici che si preoccupano di inquinamento, ambiente, e di tutti i problemi legati alla crescita economica non è così semplice. Ancora meno semplice è trovare scienziati che ci mettono un po' di passione ed intelligenza emotiva. Trovi molti tecnici ambientali, generalmente più realisti del Re. Trovi Esperti, Espertoni ed Espertissimi che si occupano di problemi "puntuali", cioè circoscritti, e regolarmente, oltre a pensare di studiare la cosa più importante del mondo, hanno la soluzione Tecnica in tasca. Purtroppo quella soluzione tecnica si rivelerà un nuovo problema. Ma intanto l'implementazione di quella soluzione tecnica ha ulteriormente devastato il territorio con nuove infrastrutture e nuove emissioni (Nota: l'inglesismo "implementazione", che fra tutti gli inglesismi è uno di quelli che maggiormente mi irrita, viene dall'ambiente ingegneristico che, naturalmente, eccelle per la produzione di soluzioni tecniche innovative, che aumentano la produttività e la competitività del paese, rilanciando la crescita. Amen).
Capita che ieri sera l'associazione Valdisieve e l'associazione Verso Rifiuti Zero organizzavano la proiezione di Trashed e quindi ci sono andato. Andatelo a vedere anche se penso che per i lettori di questo blog non avrà contenuti di cui sono ignari. Impressionante comunque.
Il problema dei rifiuti si risolve in un solo modo, riducendoli a zero.
-E' impossibile- dice il tecnico sapiente.
- Possibilissimo purché si voglia - dico io (e tutti quelli che si occupano del problema senza fare da agenti promotori dei gestori del ciclo dei rifiuti)
Il primo passaggio è interiorizzare e socializzare il concetto che i rifiuti non riciclabili naturalmente sono un problema e NON UNA RISORSA. Tipicamente le plastiche, di cui molto si parla nel film, e la cui accumulazione in forme diverse nei mari rappresenta una catastrofe già pienamente in atto.
- Ci sarà sempre una parte che dovrà essere incenerita - Dice il tecnico competente.
- A parte il "sempre" (che non fa parte di questo mondo) posso convenire che negli anni a venire sarà necessario bruciare qualcosa- dico io - Ma questo servizio non deve essere fonte di profitto, deve essere gestito in perdita a carico della collettività in proporzione alla produzione di rifiuti di ciascuno.
Questa dovrebbe essere la risposta immediata (non la soluzione) politica al problema dei rifiuti.
Capita che ieri sera l'associazione Valdisieve e l'associazione Verso Rifiuti Zero organizzavano la proiezione di Trashed e quindi ci sono andato. Andatelo a vedere anche se penso che per i lettori di questo blog non avrà contenuti di cui sono ignari. Impressionante comunque.
Il problema dei rifiuti si risolve in un solo modo, riducendoli a zero.
-E' impossibile- dice il tecnico sapiente.
- Possibilissimo purché si voglia - dico io (e tutti quelli che si occupano del problema senza fare da agenti promotori dei gestori del ciclo dei rifiuti)
Il primo passaggio è interiorizzare e socializzare il concetto che i rifiuti non riciclabili naturalmente sono un problema e NON UNA RISORSA. Tipicamente le plastiche, di cui molto si parla nel film, e la cui accumulazione in forme diverse nei mari rappresenta una catastrofe già pienamente in atto.
- Ci sarà sempre una parte che dovrà essere incenerita - Dice il tecnico competente.
- A parte il "sempre" (che non fa parte di questo mondo) posso convenire che negli anni a venire sarà necessario bruciare qualcosa- dico io - Ma questo servizio non deve essere fonte di profitto, deve essere gestito in perdita a carico della collettività in proporzione alla produzione di rifiuti di ciascuno.
Questa dovrebbe essere la risposta immediata (non la soluzione) politica al problema dei rifiuti.
venerdì 24 maggio 2013
Riassumendo.
Nella seconda metà del decennio scorso abbiamo raggiunto e superato il picco del petrolio convenzionale, cioè di quella forma di petrolio, relativamente facile da estrarre e a buon mercato, che ha alimentato il metabolismo sociale ed economico per più di un secolo, con un'accelerazione nel secondo dopoguerra; quello dietro il boom economico, la rivoluzione verde, l'esplosione demografica, il welfare, l'auto di massa, e poi la globalizzazione la quale, altro non è, che la tendenza di tutti i popoli di seguire il modello occidentale nella sua forma più consumista: il sogno americano.
La crisi finanziaria è un effetto del rallentamento economico che a sua volta è stato innescato dalla inesorabile stasi dell'offerta di combustibili su cui è fondata la nostra società. Robert Hirsh stima che fra 50mila e 100mila miliardi di dollari siano cristallizzati in macchine e infrastrutture disegnate per funzionare grazie ai prodotti petroliferi. La società non è quindi nè preparata nè in grado di affrontare una transizione rapida e indolore.
Per motivi energetici ed ecologici la transizione dovrà essere più rapida di quanto il sistema possa sopportare. Il problema è che le classi dirigenti non possono nè capire nè accettare, quello che il sistema non può sopportare. La capacità di sopravvivenza del sistema capitalistico si misurerà su questo terreno, non su quello ideologico dell'ipotesi socialista.
Il capitalismo che si è sviluppato in questi decenni è dipendente dalla crescita e la crescita dipende dalla disponibilità di energia a buon mercato e dalla libera licenza di inquinare. Con l'inizio del declino del petrolio convenzionale questo requisito è venuto meno e conseguentemente hanno iniziato a scorrere brividi di nervosismo nel tessuto della Civiltà Mondo. A volte questo nervosismo mostra aspetti prossimi al panico. E' il caso, ad esempio, del ricorso allo sfruttamento delle risorse fossili non convenzionali: shale gas e shale oil, deep water ecc. (tutti i termini in inglese, tradurli gli fa perdere comunicativa). Tali risorse sono una bolla finanziaria in senso stretto, che secondo il prof. Shiller di Yale si verifica ogni volta che si trattano sul mercato grandi volumi di merci o prodotti finanziari che hanno un valore monetario scollegato da quello reale, siano essi i bulbi dei garofani, le abitazioni di Cleveland, le azioni dot.com o i barili di petrolio.
Per inciso va detto che quando si parla di sfruttamento delle risorse fossili residue si fa sempre abbinandolo all'attributo "sostenibile", una continuazione della tradizione contemporanea dell'ossimoro ecologico.
Per quanto riguarda i barili di petrolio o i metri cubi di gas naturale oggi sappiamo che il contenuto energetico dei combustibili fossili non convenzionali, in termini di Energia Netta (cioè l'energia che resta dopo aver sottratto l'energia servita per estrarre quel barile o quel metro cubo di gas), è diverse volte inferiore a quella dei fossili convenzionali. Tuttavia il loro costo è superiore. Dunque siamo nelle tipiche condizioni della bolla.
Io non so se qualche forma di capitalismo e di democrazia sopravviverà alla crisi. Ma di una cosa sono sicuro: se lo farà dovrà adattarsi ad un ambiente in cui la crescita materiale, dei consumi e della popolazione non sarà più possibile, in cui il flusso di energia e materiali dalla natura sarà ridotto e in cui la popolazione umana inizierà il cammino verso una nuova sostenibilità.
La differenza fra collasso catastrofico, adattamento doloroso e transizione dolce, è tutto nella rapidità con cui questo cammino sarà compiuto.
La crisi finanziaria è un effetto del rallentamento economico che a sua volta è stato innescato dalla inesorabile stasi dell'offerta di combustibili su cui è fondata la nostra società. Robert Hirsh stima che fra 50mila e 100mila miliardi di dollari siano cristallizzati in macchine e infrastrutture disegnate per funzionare grazie ai prodotti petroliferi. La società non è quindi nè preparata nè in grado di affrontare una transizione rapida e indolore.
Per motivi energetici ed ecologici la transizione dovrà essere più rapida di quanto il sistema possa sopportare. Il problema è che le classi dirigenti non possono nè capire nè accettare, quello che il sistema non può sopportare. La capacità di sopravvivenza del sistema capitalistico si misurerà su questo terreno, non su quello ideologico dell'ipotesi socialista.
Il capitalismo che si è sviluppato in questi decenni è dipendente dalla crescita e la crescita dipende dalla disponibilità di energia a buon mercato e dalla libera licenza di inquinare. Con l'inizio del declino del petrolio convenzionale questo requisito è venuto meno e conseguentemente hanno iniziato a scorrere brividi di nervosismo nel tessuto della Civiltà Mondo. A volte questo nervosismo mostra aspetti prossimi al panico. E' il caso, ad esempio, del ricorso allo sfruttamento delle risorse fossili non convenzionali: shale gas e shale oil, deep water ecc. (tutti i termini in inglese, tradurli gli fa perdere comunicativa). Tali risorse sono una bolla finanziaria in senso stretto, che secondo il prof. Shiller di Yale si verifica ogni volta che si trattano sul mercato grandi volumi di merci o prodotti finanziari che hanno un valore monetario scollegato da quello reale, siano essi i bulbi dei garofani, le abitazioni di Cleveland, le azioni dot.com o i barili di petrolio.
Per inciso va detto che quando si parla di sfruttamento delle risorse fossili residue si fa sempre abbinandolo all'attributo "sostenibile", una continuazione della tradizione contemporanea dell'ossimoro ecologico.
Per quanto riguarda i barili di petrolio o i metri cubi di gas naturale oggi sappiamo che il contenuto energetico dei combustibili fossili non convenzionali, in termini di Energia Netta (cioè l'energia che resta dopo aver sottratto l'energia servita per estrarre quel barile o quel metro cubo di gas), è diverse volte inferiore a quella dei fossili convenzionali. Tuttavia il loro costo è superiore. Dunque siamo nelle tipiche condizioni della bolla.
Io non so se qualche forma di capitalismo e di democrazia sopravviverà alla crisi. Ma di una cosa sono sicuro: se lo farà dovrà adattarsi ad un ambiente in cui la crescita materiale, dei consumi e della popolazione non sarà più possibile, in cui il flusso di energia e materiali dalla natura sarà ridotto e in cui la popolazione umana inizierà il cammino verso una nuova sostenibilità.
La differenza fra collasso catastrofico, adattamento doloroso e transizione dolce, è tutto nella rapidità con cui questo cammino sarà compiuto.
mercoledì 15 maggio 2013
Il soffitto di vetro.
Continuando a seguire i seminari del simposio "Perspectives on Limits to Growth" sono arrivato a quello di Lester Brown. In questo si ha uno spaccato sintetico e completo dei problemi dell'agricoltura: 1) la crisi delle rese 2) la crisi della disponibilità di acqua dolce e 3) i problemi legati al cambiamento climatico. Sia per le rese per unità di superficie, sia per l'acqua, Lester Brown utilizza un'immagine efficace, stiamo toccando un soffitto di vetro (glass ceiling) che NON PUO ESSERE VISTO CHE QUANDO SI RAGGIUNGE. E' un'altro modo di vedere quello che dice Meadows sui limiti in generale e cioè che possono essere dimostrati solo a posteriori, prima vengono considerati dal main stream economico, politico e culturale come ipotesi non dimostrate. Il problema è capire quando si considererà l'evidenza sufficientemente evidente per cambiare politica. Il problema delle rese agricole è essenzialmente un problema tecnologico. Semplicemente, grazie alla disponibilità dei combustibili fossili, abbiamo messo in atto tutto le migliorie possibili per produrre cibo per la crescente popolazione (nemmeno tutta e nemmeno in modo equo) consumando quella particolare risorsa lentamente rinnovabile che è il suolo fertile.
Brown oppone il suo Piano B al Business As Usual. Tale piano B dovrebbe stanziare una spesa di 200 miliardi di dollari per anno per i prossimi anni, al fine di tagliare rapidamente le emissioni di carbonio, contenere la popolazione entro gli 8 miliardi attraverso l'eradicazione della povertà, l'universalizzazione del diritto alla pianificazione familiare (più di 200 milioni di donne vorrebbero farne uso, ma non possono per motivi economici, religiosi o di altra natura) e ripristinare la funzionalità degli ecosistemi terrestri: suolo, foreste, acquiferi, fauna, pascoli ecc.
La realizzazione del Piano B presuppone una vasta coscienza di quanto sta accadendo e questo contraddice sia quanto dice Meadows sia quanto sembra pensare Brown con il suo glass ceiling. Quanti avranno bisogno di spaccarsi la testa sul soffitto per convincersi che abbiamo bisogno di un piano di uscita dall'economia bulimica?
Brown oppone il suo Piano B al Business As Usual. Tale piano B dovrebbe stanziare una spesa di 200 miliardi di dollari per anno per i prossimi anni, al fine di tagliare rapidamente le emissioni di carbonio, contenere la popolazione entro gli 8 miliardi attraverso l'eradicazione della povertà, l'universalizzazione del diritto alla pianificazione familiare (più di 200 milioni di donne vorrebbero farne uso, ma non possono per motivi economici, religiosi o di altra natura) e ripristinare la funzionalità degli ecosistemi terrestri: suolo, foreste, acquiferi, fauna, pascoli ecc.
La realizzazione del Piano B presuppone una vasta coscienza di quanto sta accadendo e questo contraddice sia quanto dice Meadows sia quanto sembra pensare Brown con il suo glass ceiling. Quanti avranno bisogno di spaccarsi la testa sul soffitto per convincersi che abbiamo bisogno di un piano di uscita dall'economia bulimica?
venerdì 3 maggio 2013
Un titolo sbagliato.
In questo seminario svoltosi nel 2012 all'interno di un simposio allo Smithsonian Institution intitolato: Perpectives on limits to growth, Dennis Meadows ricostruisce rapidamente la genesi del famoso primo rapporto per il Club di Roma sui dilemmi (predicament) dell'umanità intitolato "I Limiti dello Sviluppo" e fa un'affermazione interessante. La scelta del titolo fu sbagliata. Noi, infatti, non dimostravamo l'esistenza dei limiti sul pianeta, al contrario partivamo dall'ipotesi che tali limiti fossero un dato evidente e mostravamo come, con diverse assuzioni, la società globale si sarebbe evoluta nel futuro fino al 2100.
E' un fatto che esistono persone, convinte per qualche ragione che questi limiti non esistano. Tali persone possono leggere i Limiti, e tutto quello che è seguito (perfino i post di questo blog) e restare del tutto tranquilli. Varie sono le tipologie di persone di questo tipo: chi ha fiducia nelle virtù della mano invisibile del mercato, chi nella capacità della tecnologia di farci superare i problemi da essa stessa creati, e chi ha fede nell'intervento divino. Ci sono anche quelli che si appoggiano a più di uno di questi fattori per sostenere e credere che il futuro sarà un'estensione del presente, ma sempre migliore. A volte si autodefiniscono progressisti.
Ne ho una vasta esperienza. L'incontro con la mentalità determinata dalla fede economico- tecnico- scientifica è quella più frequente. E' il pensiero conforme più diffuso sui media, nei discorsi politici e delle classi dirigenti in genere e al bar. Beninteso esiste anche un pensiero conforme antimoderno, oscurantista e antiscientifico che pensa di confrontarsi col primo attraverso la forma della guerra di religione o del pensiero magico.
Ma quello che mi ha colpito è quanto mi è capitato una volta, quando sono stato intervistato sulla questione della produzione petrolifera, da un bravo giornalista di un mezzo di comunicazione legato al Vaticano. Una persona capace e competente, gentile e umile al punto giusto da fare domande ingenue per far capire ai suoi ascoltatori. Fuori dall'intervista gli chiesi come mai la Chiesa non si occupasse del problema della sovrappopolazione e lui candidamente mi rispose che in effetti per loro c'era sempre la Divina Provvidenza che avrebbe aiutato.
Non riporto questo episodio con spirito polemico, ma proprio perché capire il punto di vista altrui è una delle cose più difficili, essendo anche la più importante.
E' un fatto che esistono persone, convinte per qualche ragione che questi limiti non esistano. Tali persone possono leggere i Limiti, e tutto quello che è seguito (perfino i post di questo blog) e restare del tutto tranquilli. Varie sono le tipologie di persone di questo tipo: chi ha fiducia nelle virtù della mano invisibile del mercato, chi nella capacità della tecnologia di farci superare i problemi da essa stessa creati, e chi ha fede nell'intervento divino. Ci sono anche quelli che si appoggiano a più di uno di questi fattori per sostenere e credere che il futuro sarà un'estensione del presente, ma sempre migliore. A volte si autodefiniscono progressisti.
Ne ho una vasta esperienza. L'incontro con la mentalità determinata dalla fede economico- tecnico- scientifica è quella più frequente. E' il pensiero conforme più diffuso sui media, nei discorsi politici e delle classi dirigenti in genere e al bar. Beninteso esiste anche un pensiero conforme antimoderno, oscurantista e antiscientifico che pensa di confrontarsi col primo attraverso la forma della guerra di religione o del pensiero magico.
Ma quello che mi ha colpito è quanto mi è capitato una volta, quando sono stato intervistato sulla questione della produzione petrolifera, da un bravo giornalista di un mezzo di comunicazione legato al Vaticano. Una persona capace e competente, gentile e umile al punto giusto da fare domande ingenue per far capire ai suoi ascoltatori. Fuori dall'intervista gli chiesi come mai la Chiesa non si occupasse del problema della sovrappopolazione e lui candidamente mi rispose che in effetti per loro c'era sempre la Divina Provvidenza che avrebbe aiutato.
Non riporto questo episodio con spirito polemico, ma proprio perché capire il punto di vista altrui è una delle cose più difficili, essendo anche la più importante.
martedì 16 aprile 2013
La retorica del FARE.
Provavo una certa irritazione di fronte allo slogan di Giannino & C: "fare per fermare il declino" e cercavo di capire perché. Marianella Sclavi nel suo libro "Arte di ascoltare e mondi possibili" suggerisce sette regole del buon ascoltatore, in questo contesto la regola numero 6 mi è sembrata la più rilevante:
I segnali più importanti sono quelli che si presentano (alla coscienza) come trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti al tempo stesso, perché non in linea con le proprie certezze.
Dunque cosa mi irritava del gianninismo? Quali sono le mie certezze che mette in crisi?
E' vero che l'ecologismo politico appare, o è apparso, spesso come opposizione al tipo di fare della nostra politica e, mi voglio allargare, perfino della nostra civiltà occidentale industrializzata che ha ormai conquistato, con la sua ideologia economica, il mondo intero. No al nucleare, no agli inceneritori, no ai rigassificatori, no al consumo di suolo e di territorio, no agli ogm, no all'alta velocità, no ai progetti di grandi infrastrutture siano essere del trasporto o di altro tipo, no alle devastazioni imposte dai grandi eventi, le olimpiadi invernali, l'Expo, i mondiali di calcio, no alle trivellazioni petrolifere in mare (e magari anche in terra), una serie infinita di no! Su questa immagine si è formata una vera e propria retorica del fare di cui avete una splendida galleria nella raccolta di articoli dell'osservatorio Costi del Non Fare (CNF) (sottotitolo: quanto costano al paese gli ostacoli che bloccano impianti e infrastrutture). Allora tutto diventa più semplice. Irritante è la retorica stessa che assume che NON FARE QUELLO CHE LORO RITENGONO INDISPENSABILE, corrisponda al NON FARE IN ASSOLUTO. Non è così. Se non da sempre l'ecologismo politico ha anche indicato altrettanti "si" contrapposti ai "no".
No al nucleare e ad un ulteriore sviluppo delle fossili. Si alle rinnovabili e al risparmio.
No agli inceneritori. Si all'applicazione generalizzata della politica Rifiuti Zero.
No agli ogm. Si ad un'agricoltura ecosostenibile produttrice di cibo salubre.
No al consumo di territorio. Si alla manutenzione del territorio.
No all'alta velocità. Si alla manutenzione e allo sviluppo del trasporto sostenibile.
Ciascun si ha un suo bilancio economico fatto di lavoro, reddito, benessere (non solo umano).
Sono due diversi modi di "fare", contrapposti e al momento inconciliabili. Da una parte c'è la continuazione di un fare che ha ormai raggiunto e superato ogni limite possibile causando danni irreparabili agli ecosistemi terrestri: non solo i cambiamenti climatici dovuti all'interferenza del metabolismo sociale ed economico con il ciclo del carbonio, ma anche all'avvicinamento e (in alcuni casi) al superamento dei confini di sicurezza degli altri cicli biogeochimici: quelli dell'azoto, del fosforo e dell'acqua, la distruzione della parte vivente del suolo diventato con l'agricoltura industriale un mero substrato su cui far crescere esclusivamente le piante ritenute utili all'uomo, la costrizione tendenziale di ogni altra specie vivente ad un ruolo marginale o la sua riduzione in schiavitù al servizio dei bisogni umani. Dall'altra c'è il tentativo di sviluppare un metabolismo rispettoso dei cicli naturali necessari per lo stesso benessere umani.
Può darsi che il secondo "fare", il nostro, sia in conflitto con il potere straripante delle forze trainanti attuali del sistema economico globalizzato: il finanzcapitalismo. Ma questo non ci dovrebbe preoccupare più di tanto. Nel secolo XIV gli interessi delle classi artigianali e commerciali cittadine erano certamente in conflitto con i poteri del feudalesimo e da quel conflitto è nata la modernità. Ora si deve di nuovo girar pagina e quelli che si attardano nell'industrialismo distruttivo si atteggiano a grandi innovatori semplicemente perché vogliono applicare una ricetta che è stata applicata per qualche secolo portandoci alla catastrofe attuale.
Noi, come quelli che vissero la crisi del trecento, non sappiamo cosa verrà dopo (e sinceramente sospetto di faciloneria quelli che hanno visioni troppo dettagliate su cosa avverrà dopo richiamandosi, magari, a famosi pensatori di due secoli fa). Ma quello che sappiamo è che questo pianeta non sopporterà un'altro secolo di aumento della popolazione e dei suoi consumi materiali umani. Il nostro "fare" tende a sviluppare le condizioni affinhé la transizione non sia un bagno di sangue. Nessuno è ancora riuscito a smontare questa certezza e questo perché, temo, è una certezza con solidi fondamenti. Sempre pronto ad ascoltare controdeduzioni. Ma per favore non le solite sparate retoriche.
I segnali più importanti sono quelli che si presentano (alla coscienza) come trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti al tempo stesso, perché non in linea con le proprie certezze.
Dunque cosa mi irritava del gianninismo? Quali sono le mie certezze che mette in crisi?
E' vero che l'ecologismo politico appare, o è apparso, spesso come opposizione al tipo di fare della nostra politica e, mi voglio allargare, perfino della nostra civiltà occidentale industrializzata che ha ormai conquistato, con la sua ideologia economica, il mondo intero. No al nucleare, no agli inceneritori, no ai rigassificatori, no al consumo di suolo e di territorio, no agli ogm, no all'alta velocità, no ai progetti di grandi infrastrutture siano essere del trasporto o di altro tipo, no alle devastazioni imposte dai grandi eventi, le olimpiadi invernali, l'Expo, i mondiali di calcio, no alle trivellazioni petrolifere in mare (e magari anche in terra), una serie infinita di no! Su questa immagine si è formata una vera e propria retorica del fare di cui avete una splendida galleria nella raccolta di articoli dell'osservatorio Costi del Non Fare (CNF) (sottotitolo: quanto costano al paese gli ostacoli che bloccano impianti e infrastrutture). Allora tutto diventa più semplice. Irritante è la retorica stessa che assume che NON FARE QUELLO CHE LORO RITENGONO INDISPENSABILE, corrisponda al NON FARE IN ASSOLUTO. Non è così. Se non da sempre l'ecologismo politico ha anche indicato altrettanti "si" contrapposti ai "no".
No al nucleare e ad un ulteriore sviluppo delle fossili. Si alle rinnovabili e al risparmio.
No agli inceneritori. Si all'applicazione generalizzata della politica Rifiuti Zero.
No agli ogm. Si ad un'agricoltura ecosostenibile produttrice di cibo salubre.
No al consumo di territorio. Si alla manutenzione del territorio.
No all'alta velocità. Si alla manutenzione e allo sviluppo del trasporto sostenibile.
Ciascun si ha un suo bilancio economico fatto di lavoro, reddito, benessere (non solo umano).
Sono due diversi modi di "fare", contrapposti e al momento inconciliabili. Da una parte c'è la continuazione di un fare che ha ormai raggiunto e superato ogni limite possibile causando danni irreparabili agli ecosistemi terrestri: non solo i cambiamenti climatici dovuti all'interferenza del metabolismo sociale ed economico con il ciclo del carbonio, ma anche all'avvicinamento e (in alcuni casi) al superamento dei confini di sicurezza degli altri cicli biogeochimici: quelli dell'azoto, del fosforo e dell'acqua, la distruzione della parte vivente del suolo diventato con l'agricoltura industriale un mero substrato su cui far crescere esclusivamente le piante ritenute utili all'uomo, la costrizione tendenziale di ogni altra specie vivente ad un ruolo marginale o la sua riduzione in schiavitù al servizio dei bisogni umani. Dall'altra c'è il tentativo di sviluppare un metabolismo rispettoso dei cicli naturali necessari per lo stesso benessere umani.
Può darsi che il secondo "fare", il nostro, sia in conflitto con il potere straripante delle forze trainanti attuali del sistema economico globalizzato: il finanzcapitalismo. Ma questo non ci dovrebbe preoccupare più di tanto. Nel secolo XIV gli interessi delle classi artigianali e commerciali cittadine erano certamente in conflitto con i poteri del feudalesimo e da quel conflitto è nata la modernità. Ora si deve di nuovo girar pagina e quelli che si attardano nell'industrialismo distruttivo si atteggiano a grandi innovatori semplicemente perché vogliono applicare una ricetta che è stata applicata per qualche secolo portandoci alla catastrofe attuale.
Noi, come quelli che vissero la crisi del trecento, non sappiamo cosa verrà dopo (e sinceramente sospetto di faciloneria quelli che hanno visioni troppo dettagliate su cosa avverrà dopo richiamandosi, magari, a famosi pensatori di due secoli fa). Ma quello che sappiamo è che questo pianeta non sopporterà un'altro secolo di aumento della popolazione e dei suoi consumi materiali umani. Il nostro "fare" tende a sviluppare le condizioni affinhé la transizione non sia un bagno di sangue. Nessuno è ancora riuscito a smontare questa certezza e questo perché, temo, è una certezza con solidi fondamenti. Sempre pronto ad ascoltare controdeduzioni. Ma per favore non le solite sparate retoriche.
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