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domenica 3 luglio 2011

Il ciclo infernale.

Volevo parlare di un libro che ha già ricevuto attenzione sul blog di Ugo Bardi Cassandra's Legacy. Il libro è quello scritto da Philippe Bihouix e Benoit de Guillebon e intitolato "QUEL FUTUR POUR LE METAUX?" (Quale futuro per i metalli?) con un sottotitolo che esplicita ulteriormente l'argomento del testo: la rarefazione dei metalli: una nuova sfida per la società.

Il testo, piuttosto tecnico, ma non pesantissimo per chi ha un minimo di cultura scientifica e sa leggere dei grafici, spiega nel capitolo introduttivo le basi per una comprensione sistemica dello sfruttamento minerario, con particolare attenzione, ovviamente, alla questione dei metalli.

La questione dei metalli non si risolve nel dire che essi sono risorse non rinnovabili per eccellenza e quindi estratte da una riserva fissa, o che si ricostituisce in tempi di centinaia di milioni di anni, il problema è il consumo crescente, la natura dispersiva di molti usi (come ad esempio l'uso dei composti di rame in agricoltura e del cromo e dello zinco come mezzi anticorrosione), i limiti del riciclo che per quanto efficace non può mai essere del 100% e l'espansione dello sfruttamento di metalli rari e rarissimi con le nuove tecnologie. L'insieme di questi fattori pone un limite alla possibilità di espansione delle applicazioni tecnologiche e industriali dei metalli.

Come per tutte le risorse minerarie con i metalli si è passati, nel corso della storia, dallo sfruttamento dei giacimenti a più alta concentrazione a quello di giacimenti con contenuto minore. Così
si stima, ad esempio, che, per quanto riguarda il rame (metallo essenziale in molte applicazioni elettroniche ed elettrotecniche) si sia passati dallo sfruttamento di giacimenti al 1,8% in rame (55 tonnellate di minerale per 1 tonnellata di metallo) all'attuale 0,8% (125 tonnellate di minerale per una tonnellata di metallo).

E' importante capire che lo sfruttamento di giacimenti a basso tenore comporta anche un consumo energetico più elevato, perché ovviamente, riprendendo l'esempio precedente del rame, ci vuole molta più energia per trattare 125 tonnellate di roccia che per trattarne 55.

E' dunque chiaro  che c'è un forte legame fra la questione energetica e quella dei metalli. Il consumo di energia aumenta infatti in modo inversamente proporzionale alla concentrazione. A causa di questa legge si viene ad istitutire un circolo vizioso, il ciclo infernale del titolo di questo post, secondo cui:

Le materie prime sempre meno concentrate, richiedono sempre più energia e
l'energia sempre meno disponibile richiede sempre più materie prime per la sua produzione.

 Questa immagine mette a confronto il pozzo petrolifero a Spindletop nel 1901 all'inizio della storia estrattiva del petrolio USA e una piattaforma del tipo Deepwater Horizon. Il secolo di sviluppo tecnologico è chiaramente apprezzabile. Non conosco il costo dell'impalcatura di legno che costituiva lo Spindletop, quello che so è che oggi una piattaforma come la Deepwater Horizon viene affittata al costo di 450.000 dollari al giorno. La tecnologia ha evidentemente un costo economico oltre che, come abbiamo visto, ecologico.  Inoltre è ovvio che l'evoluzione della tecnologia estrattiva implica una moltiplicazione del consumo di materie prime. Ed è questa la riflessione a cui ci spinge il libro di Bihouix e de Guillebon.
Per interrompere il circolo infernale c'è una sola risposta non traumatica: l'inizio di un processo di rientro governato dei consumi e della domanda di materie prime ed energia (cioè anche della popolazione).

L'insistenza delle classi dirigenti per il rilancio della crescita è la via maestra verso il collasso.



lunedì 1 novembre 2010

Con il prof. Smil, alla ricerca della tranquillità perduta.

Chi mi conosce bene sa che non sono mai stato una persona tranquilla.
Tuttavia dal settembre del 2003, momento in cui mi sono reso conto del problema del picco del petrolio, sono poco tranquillo in un modo totalmente diverso. Come dimostrano i casi che occupano le prime pagine, e la rete, in questi giorni, quello Cassano, e quello Ruby- Berlusconi, non è facile modificare il proprio temperamento che, probabilmente, è in gran parte innato. Ma certamente la "cultura", l'ambiente in cui viviamo, ci modifica.

A volte ho nostalgia della mia mancanza di tranquillità precedente. Non ho avuto nemmeno la possibilità di scegliere, come capita al Neo di Matrix, fra la pillola rossa e quella blu. Sono entrato in un'aula universitaria per assistere ad un seminario postprandiale sul petrolio, uno di quelli in cui si sonnecchia cercando di non farsi notare dai colleghi, e ne sono uscito un'ora e mezza dopo assai poco addormentato. Da allora periodicamente cerco, a volte coscientemente a volte incosciamente, di trovare una seria smentita alla verità manifesta del picco del petrolio e dei suoi effetti sulla nostra vita.

E' stato così per me naturale leggere d'un fiato l'ultima fatica del prof. Vaclav Smil, sui cui testi ho studiato e imparato moltissimo, dal titolo: Energy Miths and Realities. Bringing science in the energy policy debate (Miti e realtà sull'energia. Portare la scienza nel dibattito sulla politica energetica).

I miti energetici che il prof Smil intende sfatare sono molti, alcuni piuttosto datati come "la credenza che il risparmio energetico riduca il consumo totale di energia" e la fede incrollabile nell'innovazione tecnologica che si manifesta nella patologia della generalizzazione della legge di Moore (che il prof. definisce maledizione di Moore). Questi miti persistenti includono, secondo Smil, anche le auto elettriche, le rinnovabili e il nucleare.
Questi miti vengono affrontati e smontati con una certa ironia e noncuranza, quasi che il professore volesse mostrare quanto poco impegno sia necessario per distruggerli. Nella seconda parte del testo si affrontano i miti che hanno ricevuto l'attenzione dei media in tempi recenti e che hanno anche una corposa letteratura tecnico scientifica: il picco del petrolio, il sequestro dell'anidride carbonica, la produzione di combustibili dalle piante e la fonte eolica. In conclusione Smil affronta il tema della transizione energetica e dimostra, come già Robert Hirsh nel 2005, che per portarla a compimento ci vogliono decenni.

In molte parti del testo il professore è, a mio avviso, molto convincente. Il suo scetticismo e pessimismo sul lato tecnologico ha toccato delle corde profonde di convinzione che mi appartengono da sempre. La retorica che viviamo nella nostra società riguardante l'innovazione e la ricerca sono una delle tossine più diffuse e che maggiormente ostacolano una discussione seria sulla possibile evoluzione del metabolismo sociale ed economico. Fra queste la maledizione di Moore e le conseguenti patologie iper-tecnofile della singolarità appaiono le più gravi. Altrettanto convincente è Smil nel discutere la fattibilità dei megaprogetti di sequestro della CO2 e dei biocombustibili.

Purtroppo nella mia ricerca della perduta tranquillità aspettavo molto di più dal capitolo sul Peak Oil che appare veramente poco convincente. Gia la partenza è sbagliata: retoricamente il prof. presenta la teoria della gola di Olduvai come una specie di main-stream picchista. Poi tutta la critica si concentra sulla curva di Hubbert e sulla presunta mancanza di analisi dell'economia del petrolio da parte dei "sostenitori" della teoria del picco del petrolio. Siccome chiunque legga e studi il problema del picco sa che il modello di Hubbert non è nè l'unico nè il principale strumento teorico in mano a chi si occupa dell'esaurimento delle risorse finite, e che il "discorso" economico è sempre presente nel dibattito, al punto che esiste ormai un vero e proprio corpus di economia politica sviluppata sull'idea che sono i flussi di energia a determinare il livello del nostro benessere, la critica di Smil finisce interamente fuori bersaglio e lascia il lettore (ed in particolare il sottoscritto) nella stessa condizione in cui era partito.



Per ulteriori approfondimenti sul libro di Smil consiglio la recensione pubblicata da Gail Tvenberg su The Oil Drum.

sabato 9 ottobre 2010

Di cosa si stanno occupando nel Palazzo?

Traduco liberamente, nel seguito di questo post, il riassunto della relazione di Jeffrey Brown presentata al congresso ASPO-USA, che si sta svolgendo in questi giorni a Washington e pubblicato sul sito The Oil Drum.


I dati e le considerazioni che ne derivano, possono essere combinati con quelli che avevo pubblicato pochi giorni fa sulla dipendenza petrolifera del nostro paese e di tutta l'Europa per trarre la conclusione che non ci sarebbe tempo da perdere nel mettere in atto politiche di emergenza su tutto il territorio per affrontare in tempo una crisi che non farà prigionieri. Invece laggiù nel Palazzo di cosa si occupano in questi giorni? Ho perso il filo. Cosa c'è in ballo? La polemica sulla magistratura politicizzata? I dossieraggi incrociati fra papaveri di regime? E l'opposizione a cosa si oppone? Alle bestemmie del premier, vero? O alle sue barzellette di cattivo gusto? E gli italiani di cosa parlano?

Passiamo ai dati sulle esportazioni dei paesi esportatori.

Secondo un modello teorico di Jeffrey Brown quando un paese esportatore di petrolio supera il picco, supponendo un calo di produzione del 5% annuo susseguente al picco, combinato con una crescita del 2,5% in quello stesso paese, nei tre anni successivi al picco il paese produttore esporterebbe il 50% di tutto il petrolio che esporterà in tutto il seguito della sua storia petrolifera. Indonesia e RegnoUnito hanno superato il picco del petrolio in anni recenti come si può dedurre dai seguenti grafici.



(Le figure sono prese dal sito Energy Export Databrowser curato da  Jonathan Callahan)

Questi due paesi nel lasso di pochi anni dopo il picco, 9 per l'Indonesia e 6 per il Regno Unito, sono diventati importatori mentre il tasso di declino della produzione ha toccato negli ultimi anni il 25%.
 
Attualmente il consumo di petrolio in Arabia Saudita sta crescendo al ritmo del 6,9% annuo. A questo ritmo l'Arabia Saudita che è stata superata dalla Russia come primo esportatore globale, cesserà di esportare petrolio entro il 2030.

Se si osserva la situazione delle 5 nazioni leader nell'esportazione di petrolio, che collettivamente forniscono metà del petrolio importato nel mondo, il modello di Brown prevede che esse forniranno il 50% del loro rimanente volume di esportazioni in due anni. Oggi ci sono 33 paesi che producono più di 100.000 barili al giorno e per questi paesi la produzione è stata sostanzialmente piatta negli ultimi 5 anni, mentre il consumo è cresciuto dal 16 al 17,5% della produzione.

Il petrolio non convenzionale, sabbie bituminose e varie qualità di petrolio pesante, che è considerato un possibile importante contributo al mantenimento della produzione globale, è anche esso soggetto a questa legge. Se si considera Canada e Venezuela, i principali produttori di petrolio da sorgenti non convenzionali, la somma della loro produzione è in realtà in declino.

Come ci si poteva aspettare la preoccupazione principale è costituita dalla domanda di  Cina e India, che hanno aumentato le importazioni dall' 11.3% del totale nel 2005, al 17.1% nel 2009. Se questa dinamica continua nel 2015 esse assorbiranno il 25% delle esportazioni globali.